Dal 18 ottobre scorso gli appalti telematici sono diventati obbligatori.
I dati parlano chiaro: con la digitalizzazione delle procedure si risparmia il 10/15% del valore degli acquisti pubblici.
Tenuto conto che essi ammontano a 140 miliardi annui, ne deriva un risparmio di almeno 14 miliardi di euro ogni anno, mezza finanziaria. Inoltre, i sistemi telematici di acquisto impongono standardizzazione e semplificazione delle procedure, con abbattimento del contenzioso e drastica riduzione dei tempi di espletamento delle gare. Infine, garantiscono tracciabilità e trasparenza molto meglio di mille norme anticorruzione.
Tutto bene, dunque? Niente affatto.
Se i dati parlano chiaro, non altrettanto può dirsi della normativa italiana. Per rispettare l’obbligo, occorre solo rendere disponibile ai partecipanti un portale sul quale registrarsi, prelevare il bando, comunicare ed inviare le buste di partecipazione in forma elettronica. Ma il nostro Codice Appalti, definito dai più un prolisso manuale di enigmistica giuridica, declina l’obbligo infarcendolo con una massa spropositata di prescrizioni, quasi sempre di una ridondanza disarmante. Ad esempio, il portale non deve creare discriminazioni, non deve alterare i principi della concorrenza, deve rispettare, ci mancherebbe, le regole del CAD, il Codice dell’Amministrazione digitale (che, quanto a prolissità, tiene testa dignitosamente al Codice Appalti) e via cavillando. È sancita anche la deroga all’obbligo delle comunicazioni elettroniche, quando impraticabili, come ad esempio se risulti necessario l’invio di un “modello fisico o in scala ridotta”. In tali casi, viene prescritto che la “comunicazione avviene per posta o altro idoneo supporto ovvero mediante una loro combinazione” (Sic!).
Nel nostro Ordinamento si è ormai affermato il principio che tutto va prescritto e descritto, anche l’ovvio, con norme bigotte, di improbabile applicazione e difficile interpretazione. Vengono così coinvolti una decina di articoli, diverse decine di commi e gli immancabili rinvii ad altre leggi per recepire un obbligo sancito nelle direttive europee con due sole righe.
In questo contesto, ANCI, la storica Associazione dei Comuni italiani, prima si è sperticata in vani tentativi di ottenere un rinvio della norma sostenendo, tra l’altro, che mancavano le “regole tecniche aggiuntive” che avrebbe dovuto emanare Agid, l’Agenzia per l’Italia digitale, che, a sua volta, ha chiamato in causa il mancato aggiornamento di una Circolare del MIT, il Ministero delle Infrastrutture, del lontano 2016. Accortasi poi che la norma era improrogabile, perché l’obbligo era scattato nel termine ultimo fissato dalle direttive europee datate ben quattro anni e mezzo fa, ANCI ha provveduto a diffondere un articolato documento in cui consiglia ai Comuni di derogare alla norma (sic!), invocando cavilli vari tra cui ancora la presunta inadempienza di Agid.
È del tutto evidente, tuttavia, che la richiamata inadempienza di Agid, che però non ostacola gli appalti telematici, in quanto riguarda le regole per la modifica del formato di un documento da pdf a xml e dunque sempre di digitale si tratta. Il documento conclude poi con un cavillo esilarante, decretando la possibilità di considerare come comunicazioni elettroniche anche quelle realizzate con la spedizione di plichi contenenti strumentazioni elettroniche (chiavette USB, CD…). La spedizione è pur sempre una forma di comunicazione e, sul piano letterale, forse ci siamo. Sul piano sostanziale, viene solo da pensare all’arroganza di qualche aspirante mandarino in casa ANCI.
Sulla vicenda incombe poi il silenzio assordante di ANAC, unica titolata a porre un punto fermo sulla questione. Ma sui “sistemi telematici di negoziazione”, l’Autorità si è nel passato espressa troppe volte, per poi sconfessarsi altrettante volte.
Nel 2013, Consip aveva tuonato contro quelle Stazioni Appaltanti che imponevano in capo agli aggiudicatari una piccola commissione a ristorno dei costi dei sistemi telematici. In Gazzetta Ufficiale, infatti, tra ben 115 provvedimenti contenenti norme approvate per rafforzarne il ruolo di Centrale unica nazionale (al punto da imporre ope legis ai Comuni acquisti a condizioni economicamente svantaggiose) ce n’è, una che autorizza esplicitamente Consip all’imposizione di un corrispettivo, nella misura dell’1,5% dell’aggiudicato, a ristorno dei costi delle piattaforme telematiche. La tesi di Consip è chiara: la norma è mia e la gestisco io; per gli altri, nisba.
Vuolsi, però, che in Italia non sono ammesse “norme ad personam” e che nulla si può opporre a quanti le utilizzano agendo in analogia. E qui comincia il calvario di ANAC che viene coinvolta nella diatriba e si esprime inizialmente per “gli altri”. La vertenza continua avanti al TAR e poi al Consiglio di Stato, che si esprime inappellabilmente, a luglio 2014, anch’esso per “gli altri”.
A marzo 2015, però, inopinatamente, il grido di dolore di Consip, viene accolto da ANAC che firma un atto di segnalazione a Governo e Parlamento con la proposta di introdurre una norma con cui sia espressamente previsto il divieto, salvo diversa previsione di legge, di porre le spese di … piattaforme elettroniche … a carico dell’aggiudicatario della procedura di gara.
Come dire, occorre vietare espressamente il corrispettivo, tranne eccezioni (leggi Consip).
Nelle more dell’eventuale accoglimento di una proposta tanto bislacca, ANAC, nei casi in cui viene chiamata a pronunciarsi sulla legittimità dell’operato di “altri” che impongono il corrispettivo, si comporta salomonicamente: si esprime una volta per il si e la successiva per il no, con un alternarsi di pronunce a saldo zero.
Ad aprile 2017, l’atto di segnalazione viene accolto parzialmente, con una norma, inserita nel Codice Appalti, emendata dall’impudente cavillo “salvo diversa previsione di legge”, ma che vieta espressamente il corrispettivo per le piattaforme telematiche. Uno smacco per Consip, ma soprattutto per ANAC, che, nel tentativo di difenderne le ragioni, ha di fatto inspiegabilmente frenato la loro diffusione tra le stazioni appaltanti e le centrali di committenza interessate a non farsi trovare impreparate alla scadenza fissata improrogabilmente 18 mesi dopo.
In definitiva, a causa della confusione prodotta da queste beghe, gli appalti telematici stentano a decollare almeno nella stragrande maggioranza delle stazioni appaltanti. Con la conseguenza che, in caso di mancato utilizzo delle piattaforme telematiche incombe il rischio di vedersi annullare la gara dal TAR a seguito di ricorso di qualsiasi concorrente, risultato non aggiudicatario, che voglia appellarsi alla violazione della norma. Facile pronosticare che a poco servirà richiamare il Parere di ANCI, i ritardi di Agid e MIT e il silenzio di ANAC.
Una amara vicenda emblematica dei guasti prodotti dall’italico bigottismo normativo di cui si nutrono gli apparati romani, alimentando la corruzione e rappresentando una vera palla al piede dell’intero sistema Paese, capace di frenarne lo sviluppo.
Intervento di Francesco PINTO, Segretario Generale Associazione ASMEL