di Gerardo COPPOLA e Daniele CORSINI
Questo è il terzo articolo che dedichiamo alle banche venete: nascita, vita e morte delle banche locali e perché ciò sia accaduto è il filo conduttore del racconto. Il Veneto assurge alla storia nazionale perché nel volgere di pochi anni le crisi e fallimenti di tante banche (non solo di quelle più note) hanno probabilmente cambiato in modo irreversibile un modello di sviluppo fondato sui distretti e sulle banche del territorio, cosa che è forse alla base del ritardo dall’uscita dalla crisi economica nella quale ancora ci dibattiamo.
Si può dire senza rischio di essere smentiti che in Veneto la banca locale come categoria è pressoché sparita. Non è stata l’unica regione d’Italia dove la banca del territorio ha perduto posizioni, ma è senza dubbio quella dove il fenomeno è stato più massiccio.
Soltanto nel 2010 vi erano 57 banche con sede in Regione: 11erano società per azioni, 5 Banche Popolari, 40 banche di credito cooperativo. Vi operavano con 2.300 sportelli su un totale di 3.600 e una quota di poco superiore al 60 per cento.
Dopo sei anni sono rimaste in 34, di cui 28 BCC, tutte di dimensione ridotte. Delle restanti sei, tra popolari e spa, poche possono essere classificate come banche locali. Alcune hanno infatti vocazione specialistica, altre sono integrate in gruppi, le cui strategie sono dettate dalle rispettive capogruppo fuori regione. È stata registrata anche una certa disintermediazione, che ha portato i depositanti (famiglie e piccole imprese) verso i prodotti postali, a seguito dei timori collegati alla lunga vicenda che ha interessato le due popolari alla fine fallite.
Inoltre il credito cooperativo è destinato a perdere ulteriore forza come soggetto unitario, dato che nella formazione dei gruppi voluti dalla riforma, 14 bcc aderiranno al gruppo Iccrea e 10 a quello di Cassa Centrale Trentina. Sono scelte che frammenteranno ulteriormente l’offerta di prodotti e servizi bancari destinati ai mercati locali, indebolendo la posizione dei singoli intermediari, anche attraverso forme interne di concorrenza distruttiva.
Le quote di mercato facenti capo al localismo bancario veneto sono ora pari a pochi punti percentuali. Il Veneto bancario appartiene in prevalenza ai gruppi Intesa, Unicredito, Bpm e Monte dei Paschi, quest’ultimo statalizzato.
Quanto avvenuto appare come una sorta di maledizione del vincitore, per come era letto il localismo bancario veneto soltanto pochi anni fa, pensando addirittura che fosse il pivot del processo di ammodernamento del sistema industriale, entrato in crisi di competitività.
Da osannate banche del territorio, le banche piccole e medie si sono ridotte in pochi anni a una presenza del tutto marginale, in breve sono fallite miseramente in una delle aree più ricche d’Europa.
Siamo convinti che la causa di tutto ciò sia stato il tentativo di appropriarsi di un ruolo non loro, che ne ha progressivamente prodotto lo snaturamento, fino al disfacimento.
Quali sono le evidenze di questa proposizione?
In primo luogo, la crescita delle dimensioni operative, anche in controtendenza con gli andamenti delle restanti parti del sistema bancario, ha allentato la capacità di selezionare la clientela, portando alla rinuncia del primato informativo della vicinanza con i propri mercati tradizionali. La pletoricità delle strutture organizzative (numero di sportelli, reti di partecipazioni anche estere, acquisizioni di banche in altre regioni d’Italia, anche in condizioni critiche) ne sono i fatti più significativi.
La crescita quantitativa ha quindi portato con sé maggiore concentrazione, settoriale (in primis nell’immobiliare) e per cliente, e aumento della dimensione media della clientela, anche a seguito dell’ampliamento delle relazioni creditizie in essere presso le grandi banche, politica che ha in parte delegato la selezione diretta delle controparti agli intermediari maggiori.
La perdita della selettività è stata l’anticamera di altri e ben più gravi scompensi di governance e di fenomeni di mala gestio.
Il punto, infatti, sul quale tornare è quello dell’assunzione di un ruolo di sostegno creditizio della grande e media industria che ha progressivamente generato una maggiore permeabilità alle situazioni di conflitto di interesse.
Le trasformazioni intervenute nella governance sono lo specchio immediato di questo processo. E difficile dare una rappresentazione precisa della pletorica e sempre più complicata governance delle banche di cui parliamo.
Proviamo a farlo in sintesi soffermandoci su quel che emerge dagli ultimi bilanci del Banco Popolare (2015) e delle due popolari fallite (2016). In pochi anni, il numero dei soci è quasi raddoppiato fino a raggiungere l’iperbolica cifra di 600.000 unità. In media, una famiglia veneta su tre era socia delle tre popolari.
Limitandoci ai consigli di amministrazione delle banche capogruppo, e cioè trascurando quelli delle decine e decine di società e banche da esse partecipate, il numero dei membri andava dai 12 ciascuno per la Popolare Vicentina e Veneto Banca ai 24 del Banco Popolare.
Di essi oltre la metà erano, a quelle date, espressione del mondo industriale veneto e nazionale, cioè prenditori di credito dalle stesse banche amministrate.
Questo numero è comunque riduttivo, è una fotografia sfuocata, perché non tiene conto degli avvicendamenti intervenuti nel corso degli ultimi mandati, e in specie nel più recente periodo quando si sono fatti tentativi di salvataggio in extremis, con l’obiettivo di mantenere le crisi ancora in ambito regionale. Come ha ricordato De Bortoli sul Corriere Economia di qualche settimana fa, oggi tutti gli imprenditori, ad iniziare dal presidente di Confindustria plaudono agli interventi di salvataggio a carico dello Stato e invitano a ‘voltare pagina’. Nessuno di questi signori ricorda di aver conosciuto Zonin e Consoli!
Organi di gestione delle banche formati da maggioranze di cosiddetti debitori di riferimento vanno alla continua ricerca di equilibri collusivi, alimentano forme, anche implicite, di condizionamento reciproco, favoriscono scambi e modalità di compensazione dei vari interessi in gioco.
In questa situazione il management è portato snaturare a sua volta il proprio ruolo o accentuando il potere in maniera incontrollata (un servo-padrone che dirige il traffico tra i vari portatori di interesse, provocando inevitabili ingorghi e deviazioni da percorsi di legalità) o riducendosi a esecutore di ordini degli esponenti di maggior peso (un padrone-servo che si assume responsabilità crescenti in cambio di riconoscimenti materiali e di prestigio, fino a che dura il gioco, cioè fino al momento della esplosione finale). Ovviamente sono esclusi da queste considerazioni gli ultimi manager, chiamati al capezzale delle banche, oramai in articulo mortis.
A tali scompensi si aggiunge la necessità di tenere sotto controllo le sterminate basi sociali sia per catturarne il consenso, necessario al momento del rinnovo delle cariche, sia per utilizzarle per i crescenti fabbisogni di capitale richiesti dalla crescita dei volumi e dei livelli di rischiosità. L’averlo fatto con modalità non sempre trasparenti ha prodotto il collocamento di azioni e obbligazioni presso soggetti non consapevoli dei rischi. Su di essi ha gravato gran parte degli azzeramenti di capitale primario e secondario, prima degli interventi a carico del contribuente.
La conclusione di queste poche e generiche riflessioni è che quando la banca locale entra in crisi non ha più nulla di locale.
Dobbiamo tornare sul rapporto banca industria con un’ulteriore osservazione.
Quando si allentano i criteri di selettività del credito, si produce, in contesti territoriali circoscritti e a forte caratterizzazione settoriale, come avviene nel caso dei distretti, una forma di distorsione della concorrenza, dato che il credito concesso in abbondanza tiene in vita anche i soggetti meno efficienti, che verrebbero rapidamente espulsi dal mercato, ove si seguissero criteri di maggior rigore. L’interesse ad una banca più selettiva dovrebbe essere in prima battuta proprio della parte produttiva più robusta. Quando l’indebito sostegno agli operatori meno efficienti arriva a danneggiare oltre un certo limite quelli più efficienti sono questi ultimi a chiedere alla banca di chiudere i cordoni della borsa. Così facendo cominciano a emergere sofferenze in misura sempre maggiore, fino a determinare il dissesto della banca stessa. Questo è il motivo per il quale la perdita di criteri di prudenza e di indipendenza della banca locale ne sancisce velocemente la fine. Ad un certo punto la situazione non è più sostenibile e i tappi saltano.
Sembra che sia avvenuto proprio questo, nella illusione di trasformare un sistema localistico in un sistema a vocazione nazionale o addirittura internazionale, che non era alla portata dei nostri effimeri campioni regionali.
E alla fine è l’industria che determina la fine della banca, ritenendola non più funzionale alla propria sopravvivenza.
L’arrivo delle grandi banche in contesti territoriali come il Veneto è l’unico modo per tagliare di netto questi nodi, anche se non sarà facile poiché sarà necessario un periodo di consolidamento e riorganizzazione che potrà richiedere anni per riassorbire il moral hazard che si è prodotto nei periodi precedenti. Per ripristinare il merito di credito delle imprese, si dovrà ricostituire la fiducia nella qualità dell’informazione proveniente da queste ultime. Ci vorrà del tempo. Prevarranno comportamenti giustamente selettivi che restringeranno l’offerta di credito. Non è un caso che, nell’accordo sottoscritto, Intesa si sia riservata la possibilità di retrocedere alla liquidazione ulteriori 4 miliardi di impieghi delle due banche fallite, che, in un contesto di urgenza assoluta, non ha avuto modo di esaminare con la dovuta diligenza.
Vi è che tutte queste cose non sono affatto nuove nella secolare storia della banca. Purtroppo non si è imparato ancora a sufficienza dai disastri che si creano da un rapporto distorto tra banca e industria. E, seppure sia diabolico, continuiamo a perseverare nell’errore, credendo di avere ogni volta in mano la pietra filosofale che faccia il miracolo e smentisca i dannosi precedenti di questo connubio.
Come abbiamo scritto nell’articolo uscito alcuni giorni fa dal titolo “Che cosa è veramente successo nelle banche del Veneto”, il problema si aggrava non di poco se anche le autorità pensano di avere in mano quella stessa pietra filosofale.