La questione bancaria portata al punto di massima attenzione con la legge di conversione del Decreto Salvabanche (intervento pubblico diretto nel capitale di alcune importanti banche e proposta di costituire una commissione parlamentare di inchiesta) dimostra la ritardata consapevolezza dei problemi di un’industria da tempo contrassegnata da fragilità strutturali.
Le numerose crisi bancarie, alcune delle quali ancora irrisolte, hanno fatto da contrappunto alla blanda azione preventiva e correttiva di queste fragilità, tra le quali i deficit di governance occupano un posto centrale.
Anche in prospettiva è difficile vedere rapide modificazioni, dato che pure le riforme delle banche popolari e di quelle di credito cooperativo scontano tempi di efficacia non brevi e complessità realizzative ancora da risolvere.
Dobbiamo prendere atto di una classe manageriale rivelatasi in troppe circostanze inadeguata (anche per quanto riguarda l’attitudine al rispetto delle regole) e di governance barocche basate sul ruolo di soggetti quali le Fondazioni, da un lato vituperate per aver estratto dalle banche troppo valore, dall’altro osannate come salvator mundi e su assemblee oceaniche dei soci da palasport, entrambe filigrane societarie che rendono il management non del tutto responsabile, con ricchi bonus a prescindere dai risultati e titoli da capitalizzare, appena fuori, in altre prestigiose posizioni. Il ritorno dello Stato e l’arrivo dei fondi di investimento internazionali renderanno ancora più complicati i giochi di governance.
L’azione di ridimensionamento delle organizzazioni non sarà strada priva di ostacoli e costi sociali, con un sistema impegnato più di ogni altro in Europa a trovare soluzione all’abnorme peso dei prestiti malati.
Dopo l’intervento legislativo sull’interlocking del 2011 contro la prassi di occupare contemporaneamente posizioni di amministrazione e controllo in società bancarie e finanziarie in concorrenza tra loro, sono ancora ricorrenti pletoricità degli organi, collegialità sacrificata a singole individualità, conoscenze tecniche non sempre adeguate, sproporzione tra remunerazioni e prestazioni, nonostante le più recenti normative al riguardo. Le patologie più gravi si sono nel tempo tradotte in conflitti di interesse, eccessiva assunzione di rischi, gravi disfunzioni organizzative.
Sono diffuse prassi che non pongono limiti al numero dei mandati, consentono il passaggio tra incarichi all’interno della stessa banca (per esempio, da Direttore a Presidente o tra consiglio di amministrazione e collegio sindacale), fanno ricorso a contratti di lavoro autonomo per mantenere nella stessa posizione apicale dirigenti ormai pensionati. Alcune ingerenze della politica completano un quadro che necessita di essenziali modificazioni.
Si attendono le prime applicazioni della norma che prevede la rimozione forzata da parte delle autorità di settore di esponenti inadeguati (al di fuori dei casi di commissariamento), dopo che essa è stata a lungo invocata come condizione sine qua non per un’efficace azione di vigilanza.
Se si cerca di calcolare il numero di amministratori, sindaci, vertici dirigenziali di banche, società finanziarie e strumentali, organismi professionali, di rappresentanza e istituzioni che esprimono la proprietà delle banche medesime non si è lontani dalle 20.000 cariche.
Il noto motto di Carlo V “todos caballeros!” sembra essersi trasformato in “todos banqueros!”. I costi della governance ne sono palpabile conseguenza, segnando tra l’altro una forte sproporzione tra i compensi degli incarichi di vertice e quelli dei restanti componenti gli organi aziendali, a suggellarne la figura di contorno rispetto a Presidenti, Amministratori Delegati, Direttori Generali e loro sostituti.
Che vi sia dunque bisogno di maggiore selettività della classe dirigente, in funzione della valorizzazione della professionalità e dei meriti, appartiene alla sfera delle istanze generali di miglioramento della governance bancaria, affinché la libertà di impresa si coniughi al meglio con le best practices professionali piuttosto che con la discrezionalità e l’insufficienza dei controlli.
Il rispetto di generali requisiti di bona gestio è comunque condizione necessaria, ma non sufficiente per il reindirizzamento dell’industria.
In questi tempi, ciò che dobbiamo più specificamente chiedere a una buona governance è di mostrarsi adeguata alla tecnologia applicata alla finanza, che sta rinnovando le più importanti funzioni del banking.
La possibilità di stabilire alcune metriche per una maggiore oggettività nella valutazione della rispondenza alle trasformazioni in corso richiede, per esempio, di misurare, oltre al bilanciamento tra accentramento e decentramento dei poteri, il grado di apertura degli organi collegiali verso una maggiore interdisciplinarietà, l’effettiva circolazione delle informazioni all’interno di tali organi e la capacità di impostare, coordinare e controllare piani industriali e progetti di trasformazione sempre più complessi.
Questo processo riguarda in prima istanza il rapporto con l’innovazione tecnologica, se cioè essa venga inseguita come elemento alla moda, traducendosi prima o poi in inefficienze operative ed elementi di costo o se sia elaborata nelle sue implicazioni strutturali e quindi trasformata in fattore abilitante dell’innovazione di processo e di prodotto.
Il rapporto delle banche con i propri outsourcer informatici, che è modalità organizzativa di buona parte del sistema, deve essere sviluppato in funzione di scelte di medio e lungo termine, basate su questo principio.
Se è vero che la banca cliente deve controllare qualità, costi e tempi di quanto viene commissionato all’outsourcer, è altrettanto vero che quest’ultimo deve dare garanzia di sapersi muovere lungo la frontiera dell’innovazione, con una visione strategica ad ampio spettro, anche per capacità di intercettare le evoluzioni internazionali dell’ ICT.
Questa capacità è essenziale in funzione dello sviluppo della banca digitale, per la quale non ci si potrà limitare ad innovazioni del front-end, ma si dovrà più intensamente investire su applicazioni di back-end sempre più performanti e sicure, dato che questi parametri sono i requisiti per lo sviluppo degli instant payment e dei processi automatizzati di gestione del risparmio.
Si renderanno necessarie più complesse conoscenze tecniche anche nei rapporti di finanziamento alle imprese, per le quali la prospettiva del passaggio dal debito all’equity, richiederà di valutare piani industriali del prenditore estesi alla validità delle tecnologie che egli intende applicare.
Un tema altrettanto importante è l’inserimento delle attività bancarie e dei servizi di pagamento nell’ambito delle smart city e delle smart community che fanno parte delle strategie europee per la competitività economica 2020, in cui sviluppo tecnologico, sviluppo dei mercati e conseguimento di vantaggi competitivi trovano nel localismo italiano ampio campo per nuove opportunità.
Le banche dunque non potranno essere consumatrici acquiescenti di servizi informatici, ma avranno bisogno di sviluppare professionalità proprie in grado di discutere le scelte degli outsourcer, dei propri clienti e dei mercati di riferimento.
Il governo della tecnologia, quale variabile chiave per mettere a raffronto le opzioni disponibili, implica infatti il diretto coinvolgimento dei massimi livelli di guida dell’azienda bancaria.
L’inserimento nella governance bancaria di competenze professionali di natura informatico-ingegneristica, di esperti di economia circolare e delle reti e di finanza di impresa non sarà più rinviabile, come pure verrà richiesta una più attenta capacità di governare il rapporto con le società di consulenza, che stanno coprendo con crescente intensità i gap delle organizzazioni.
I consiglieri, come ci ha ricordato di recente Roger Abravanel, non possono limitarsi a discutere delle sempre più invasive questioni di compliance, ma debbono capire il business e avere esperienze di strategia e di gestione, quando si tratta di approvare operazioni complesse, anche d’ordine tecnologico, di controllare le performance e la gestione delle risorse umane. Altri punti essenziali da potenziare riguardano l’efficacia del ruolo del Presidente chiamato a favorire la circolazione dell’informazione all’interno del consiglio e dell’azione di stimolo critico che deve provenire dai consiglieri indipendenti.
Queste competenze sono necessarie anche per migliorare l’informazione al mercato, magari mediante una specifica sezione in bilancio, dedicata alla dimostrazione della rispondenza delle politiche tecnologiche al business.
Queste minime riflessioni intendono trasmettere l’opinione che Governance e Tecnologia sono sempre più destinate ad intrecciare tra di loro una complessa danza, sconosciuta nel passato anche recente del banking.
Non si tratterà infatti di gestire principalmente i rischi operativi dei malfunzionamenti, del disaster recovery o della continuità operativa, ma quelli assai più complessi di natura strategica.
Nel loro sostegno reciproco, Governance e Tecnologia finiscono per dipendere l’una dall’altra. La Governance dipende dalla Tecnologia perché ad essa è affidato il trattamento dei dati e delle informazioni, da sfruttare in quantità e modalità mai praticate prima (Big data, Data analytics e così via), la Tecnologia dipende dalla Governance nella misura le strategie commerciali sono formulate in stretta coerenza con quelle IT (architetture informatiche Service Oriented, utilizzo del Cloud e via dicendo).
L’ottimalità della dialettica tra le due funzioni diventa essenziale per la competitività delle banche anche nei riguardi dei nuovi operatori delle piattaforme di social network e di commercio elettronico, massivamente in arrivo nel mercato dei servizi bancari, facendo perno sulle tecnologie digitali.
Quest’ultima prospettiva non può essere dimenticata nemmeno per un attimo nel processo di riconfigurazione di un’industria che intenda riacquistare solidità e capacità di competere.