di Daniele CORSINI e Gerardo COPPOLA
Nel 2010, nel volgere di pochi mesi, il Nord Est e in specie il Veneto sono al centro di forum macroeconomici di alto livello, con la presentazione di studi e ricerche di espressione istituzionale, come mai era accaduto prima.
Nel giugno di quell’anno, infatti, l’allora Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, ricevendo la laurea honoris causa al CUOA di Altavilla Vicentina (lo stesso riconoscimento era stato assegnato a Zonin nel 2005) parla del NordEst, definendolo «un’area cruciale per l’intera economia italiana, dove vi risiede quasi un quinto della popolazione, vi si produce un quarto del Pil del settore privato» ed «è da questa area che origina poco meno di un terzo delle esportazioni italiane».
E soggiunge:
«Ma ora il Nord Est fatica a tenere il passo, come tutta l’Italia, rispetto alle regioni più ricche d’Europa. È con queste che deve confrontarsi».
Pochi mesi più tardi, sempre al CUOA di Vicenza, viene presentato un ponderoso studio di oltre 700 pagine della Banca d’Italia dal titolo “L’economia del Nord Est”, in cui economisti dell’istituto ed accademici di molte università sottolineano i limiti dello sviluppo economico dell’Italia Nord Orientale.
In questo panorama economico un po’ malconcio, viene tuttavia diffusa l’indicazione che potranno essere proprio le banche del territorio (popolari e bcc) ad alzare un argine contro gli effetti recessivi dell’economia, stanti le più prudenti politiche delle grandi banche.
Aggiunge infatti Mario Draghi, anticipando i risultati dei lavori prima menzionati:
“A fronte di una maggiore varietà di prodotti e servizi offerti alla clientela, i grandi intermediari hanno un legame meno intenso con il territorio, che rappresenta invece uno dei punti di forza del tessuto di banche di dimensione media e piccola. L’ampia presenza di intermediari locali costituisce un aspetto peculiare del Nord Est, con un livello medio dei tassi di interesse più basso che altrove.”
Quindi continuando a braccio nella sua dissertazione di laurea, il Governatore, come ricordano le cronache dell’epoca, conclude, affermando che:
“Il legame con il territorio significa più approfondita conoscenza del cliente che nessun modello matematico può replicare. In questo modo lo si può continuare a sostenere anche quando le cifre non lo consentirebbero. Stare sul territorio significa saper far banca.”
Appare difficile conciliare quelle affermazioni sulla necessità di contrastare il minore impegno dei grandi intermediari creditizi nell’area del Nordest con il fatto che poco più di un anno prima, lo stesso Governatore aveva autorizzato l’acquisizione da parte del Monte dei Paschi della Banca Antonveneta, consegnando alla terza maggiore Banca del paese una delle più importanti banche della regione.
Pare in verità molto strano che il messaggio rivolto da Draghi al sistema produttivo e finanziario vada in direzione totalmente opposta rispetto al suo pur recente operato. Ma anche le analisi avanti ricordate degli economisti di Banca d’Italia, alle quali egli fa esplicito rinvio, sembrano lasciare pochi dubbi sul ruolo auspicato per la banca locale.
Sarà quindi una vera sorpresa trovarsi davanti, solo pochi anni dopo, alla pressoché completa e improvvisa disintegrazione del sistema bancario veneto. Ci si aspettava invero una crisi economica lunga, non una crisi bancaria di queste proporzioni.
Eppure già nel 2010, all’epoca degli eventi del CUOA, qualcosa di sotterraneo e silenzioso, come avviene in un fenomeno sismico, stava prendendo forma, accumulando dosi crescenti di energia, che si sarebbero liberate tutte in una volta e in misura distruttiva, con le conseguenze che sono oggi sotto i nostri occhi.
Mentre la produzione industriale del Veneto si ferma già nel 2008, i prestiti delle banche del territorio continuano invece a correre, come avevano fatto per tutti i primi anni 2000, per arrestarsi solo nel 2012. È più che ragionevole pensare che in quegli anni il credito, invece che la crescita, vada sempre più a sostenere i precari equilibri finanziari delle imprese. È un credito che nasce ‘malato’, perché destinato a coprire gli squilibri che hanno motivazione nel ripiegamento del modello produttivo della regione. L’erogazione di quei prestiti vede soprattutto impegnate le banche locali.
Quando questi flussi creditizi si interrompono, cominciano a emergere incagli, sofferenze e perdite, in un processo che acquista crescente velocità e che niente riesce più a fermare nei successivi cinque anni.
Se la crisi del sistema imprenditoriale veneto è, come di sostiene, di natura strutturale (dato che esso deve impegnarsi a recuperare produttività e competitività nel medio termine), come possono essere le piccole banche locali ad arrestarla, considerato che, per proteggere i loro depositanti, dovrebbero, in quella situazione, diventare più selettive delle altre e non certo più lassiste?
Come può questo tessuto bancario di prossimità, che nel 2010 pesa meno della metà del totale del credito regionale ed è disperso tra una cinquantina di banche, farsi carico del sostegno finanziario di una riconversione industriale?
Spostiamoci ora ad osservare che cosa succede dal 2012 al 2017, anno del tracollo finale del sistema veneto. Qui dobbiamo distinguere due sotto periodi: quello che va dal 2012 al 2014 e quello successivo dal 2015 al 2017.
Nel primo, gli sforzi delle principali banche regionali per mantenere adeguati livelli di patrimonializzazione delle banche regionali sono già evidenti, con ripetuti collocamenti di strumenti di capitale e di debito (azioni e obbligazioni), che, nel caso della Vicenza e di Veneto banca, sono sostenuti da prezzi artificiali del valore delle azioni e da operazioni ‘baciate’, già a partire dal 2012.
Infatti, mentre gli indici di borsa delle banche quotate sono in diminuzione già da alcuni anni, quello delle azioni delle due popolari, che non sono quotate, cresce fino al 2014 raddoppiando rispetto a pochi anni prima: il che consentirà di raddoppiare negli stessi due anni anche il numero dei soci. Dal canto suo, il Banco Popolare, che dovrà alla fine aggregarsi con la Popolare di Milano, farà in questi anni diversi aumenti di capitale per alcuni miliardi, senza venire definitivamente a capo dei suoi squilibri.
È una rincorsa continua tra rischi creditizi e livelli patrimoniali, che ha alla base la crisi dell’economia reale ormai definitivamente conclamata.
I crediti affondano su un terreno sempre più friabile, fino a che le due banche, poi fallite, superano il limite dei 30 miliardi di euro di attivo, che le fa classificare come sistemiche nel nuovo contesto dell’Unione bancaria.
Nel 2014, sono dunque tre le banche venete su un totale di 15, che, all’interno della nuova cornice europea, vengono infatti affidate alla vigilanza della BCE. E da quel momento comincia una diversa lettura delle politiche rischiose seguite fino ad allora e delle difficoltà dei mezzi patrimoniali di tenere il passo con il deterioramento degli attivi.
Il periodo 2015-17 è quello terminale, durante il quale emerge anche la situazione negativa di molte banche minori, ad opera dell’attività di vigilanza delle autorità nazionali, che porta a commissariare diverse banche di credito cooperativo, a imporre fusioni, fino a giungere alla liquidazione delle due popolari e all’arrivo in Veneto del maggior gruppo bancario italiano, aiutato dallo Stato.
In nessun altra regione italiana si è avuto un numero tanto alto di dissesti.
Si riscontrano anche sostanziali somiglianze delle crisi delle Popolari e delle BCC che sono: improvvise, per aver sottovalutato fino all’ultimo i seppur chiari segnali di allarme, virulente per forza distruttiva di risorse patrimoniali, irreversibili, poiché pressoché tutti gli enti bancari in condizioni di criticità sono irrimediabilmente scomparsi.
Dovendo andare alle cause di questa generalizzata condizione, non possiamo non tornare alle interpretazioni fornite dalle fonti istituzionali nel 2010, per chiederci se certe affermazioni sulle banche del territorio non abbiamo inciso sulle loro politiche creditizie, nel senso di averle sospinte verso un ruolo improprio.
E ancor peggio sarebbe se quelle interpretazioni avessero addirittura incoraggiato un contesto di moral hazard e di eccessiva assunzione di rischi (fenomeno che porta intrinsecamente con sé pratiche contrarie alla deontologia e alla legge, ora emerse in grande numero), assecondando le ambizioni dei banchieri locali dirette a inseguire obiettivi dimensionali e di potere, in un contesto di crescente commistione tra banca e industria.
Vogliamo subito escludere che questa nostra interpretazione suoni di giustificazione dei comportamenti irrispettosi dei più basilari canoni di prudenza, che non possono che far capo alle responsabilità delle singole banche e dei singoli banchieri coinvolti nei dissesti.
Ma ci sembra interessante porre il tema degli effetti delle analisi economiche territoriali sul sistema bancario, per individuare meglio le cause delle condotte che hanno snaturato il ruolo della banca locale in questi ultimi anni.