di Giovanni COSTA
Si è conclusa venerdì la XIX settimana della cultura d’impresa, promossa da Confindustria e Museimpresa. Se n’è parlato poco: da un lato ci siamo risparmiati fiumi di retorica, da in altro si è persa un’occasione per riflettere sul ruolo dell’imprenditore e dell’impresa soprattutto in questo momento in cui la crisi, che non è solo sanitaria, sembra mettere in discussione tutto.
Impegnativo il titolo della manifestazione «Capitale Italia. La cultura imprenditoriale per la rinascita del Paese» che viene così specificato: «…si può e si deve ripartire e rinascere mettendo al centro l’impresa la sua capacità di costruire visioni, di innovare e reinventarsi, di essere soggetto cardine di comunità».
Affermazioni di cui si trovano sicuramente significativi riscontri in molte storie d’impresa nella nostra regione (Veneto ndr), ma che devono essere attualizzate, depurate di alcune scorie non propriamente comunitarie e proiettate in un futuro quanto mai incerto e problematico.
Messa così la cultura d’impresa presuppone atteggiamenti e valori che non possono essere affidati alle sole cure dell’associazionismo imprenditoriale.
Anche se per rimettere al centro l’impresa e con questa le persone che vi lavorano, i primi a farlo devono essere gli imprenditori stessi maturando sensibilità ambientale, responsabilità sociale e adottando assetti societari e finanziari adeguati alle sfide competitive. Questo presuppone una capacità di analizzare la cultura della propria impresa. Da questo punto di vista non si dovrebbe parlare di «cultura» ma di «culture» d’impresa, perché ognuna ha una sua individualità che deve essere compresa per poter essere cambiata.
Per quanto paradossale possa sembrare, una forte cultura d’impresa è uno dei principali ostacoli al cambiamento richiesto dalle nuove forme di competizione e dalle nuove tecnologie. Questo esito è più probabile quando il fondatore che ne ha determinato il successo resta in posizioni operative anche in età più che matura: secondo una recente ricerca Aidaf-Bocconi, quasi un terzo delle imprese familiari venete sopra i 20 milioni di fatturato ha al vertice un leader ultrasettantenne. I problemi sorgono a causa di più o meno consce resistenze al cambiamento basate sulla constatazione che «abbiamo sempre fatto così». Questo avviene perché è umano reiterare i comportamenti che hanno avuto successo in passato. In economia è una scorciatoia non più ammessa.
Per il passato ci sono i musei d’impresa (si veda il bel volumetto curato da D.Ghirardi e S.Oliva «I musei d’impresa in Veneto», Marsilio Editori) che se utilizzati senza intenti solo celebrativi possono servire soprattutto ai giovani per dotarsi di una memoria storica, capire il presente e costruire il futuro. La cultura di un’impresa non è un orpello che si aggiunge ex post alla strategia bensì un suo elemento costitutivo che viene affinato nel tempo e metabolizzato da tutti gli attori interni ed esterni ed è inestricabilmente legato ai processi, alle tecnologie, ai rapporti con la famiglia, le istituzioni, i clienti e i fornitori. Non ha solo un forte valore identitario ma anche operativo perché suggerisce a tutti gli addetti le opzioni corrette senza che sia necessario un intervento della linea gerarchica.
La pandemia impone ai pubblici poteri scelte in tema di blocchi forzati delle attività, ristori, bonus, decontribuzione, incentivazioni, detassazione, moratorie, sanatorie e così via, che sospendono temporaneamente il normale funzionamento dell’economia e lasciano in eredità un indebitamento che potrà essere assorbito solo attraverso una ripresa degli investimenti produttivi, privati e pubblici. La bozza della legge di bilancio arrivata dopo lunga e sofferta gestazione in parlamento contiene un elenco di fondi dedicati a specifiche iniziative che fa sorgere una domanda inquietante: abbiamo le professionalità necessarie per amministrarli con rapidità ed efficacia? Per non parlare del versante italiano del Recovery Fund i cui contenuti sono ancora avvolti di mistero. Ecco perché anche il decisore pubblico dovrebbe dotarsi di una cultura d’impresa così da emanare norme semplici, applicabili e non suscettibili di aggiustamenti opportunistici.
Non basta ripetere che nulla sarà come prima. Bisogna provare a dire come sarà dopo. Questo sembra il vero banco di prova delle culture d’impresa.
Intervento di Giovanni COSTA, Professore Emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova. Ha svolto attività di consulenza direzionale e ricoperto ruoli di governance in gruppi industriali e bancari. (www.giovannicosta.it)
Questo articolo è stato pubblicato su CORRIERE DEL VENETO del 18-NOV-2020