Nel giugno 2001 entrava in vigore in Italia il D.Lgs 231.
Dall’entrata in vigore ad oggi sono stati dedicati fiumi d’inchiostro all’analisi giuridica della normativa de qua.
Dopo vent’anni, con certezza si può affermare che l’introduzione del D.Lgs 231/01 ha permesso una rivoluzione copernicana in tema di etica e legalità d’impresa, segnando profondamente un passo di svolta storico prima nell’ordinamento giuridico italiano e poi dentro la corporate governance.
Dal momento che tale disposizione normativa ha previsto l’introduzione del principio giuridico “societas puniri potest”, annullando, quindi, il principio che fino a quel momento vigeva in Italia: “societas delinquere non potest”.
La portata storica dell’annullamento del principio de quo si può definire la ratio legis che sta alla base della normativa 231(1).
Il principio che si riassumeva nel brocardo latino “Societas delinquere non potest”, (espressione formulata dal giurista penalista tedesco Franz Von Liszt nel 1881) perdurò per molti anni, anche perché, una parte autorevole della dottrina, lo riscontrava, indirettamente, nell’art. 27 della Costituzione, ai sensi del primo comma che definisce “la responsabilità penale personale”. Parte della dottrina ed anche della giurisprudenza da questa definizione avevano declinato, quindi, la convinzione giuridica che una forma di responsabilità penale poteva essere ascritta solo alla persona fisica e giammai quindi poteva essere considerata nel nostro ordinamento tale responsabilità da imputare ad una persona giuridica.
A confermare tale convinzione nel 1988 era stata l’interpretazione della sentenza n. 364 della Corte Costituzionale che ponendo in risalto l’elemento della “colpevolezza” della persona, parte della dottrina ne fece derivare la considerazione che l’eventuale possibilità di comminare una sanzione alla persona giuridica, sarebbe potuta avvenire soltanto in seguito ad una manifestazione esclusivamente dell’elemento di colpevolezza che quest’ultima poteva esprimere. Andava da sé, pertanto, che tale interpretazione alimentava sempre di più i dubbi circa la capacità di un soggetto giuridico di poter esprimere tale forma di colpevolezza.
Ma pian piano, invece, si è verificato, nel nostro ordinamento giuridico un passaggio storico in tal materia. Passaggio storico posto in essere in seguito alla produzione di atti giuridici internazionali, che ne imponevano una ratifica, il cui contenuto indicava, invece, esattamente il contrario, ovvero, la necessità di riconoscere una responsabilità anche alla persona giuridica.
Al D.Lgs 231/01 al quale, senza se e senza ma, va il riconoscimento di essere il capostipite giuridico della compliance normativa in Italia. Si può considerare apripista di un nuovo modo d’intendere le normative in materia di legalità ed etica aziendale. Dal momento, che va attribuito il merito, indirettamente, di avere reso possibile una nuova concezione giuridica per poter gestire la Corporate Governance.
Ma, è fondamentale ricordare che questo “quid pluris” giuridico, rappresentato da tale normativa, nel nostro ordinamento è stato previsto in ossequio, proprio, a dettami di atti internazionali ed europei.
Infatti, anche se gli orientamenti sia giurisprudenziali che dottrinari, in Italia, lasciavano pochi dubbi circa l’eliminazione del principio “societas delinquere non potest”, riconoscendone, addirittura, l’ancoraggio alla nostra carta costituzionale. Il legislatore nazionale mosso dalla necessità giuridica di adeguarsi, mosso, cioè, dall’obbligatorietà di rendere efficaci all’interno dell’ordinamento atti internazionali ed europei, con l’approvazione del D.Lgs 231/01 diede origine all’introduzione del principio “societas puniri potest”.
Tale legislazione ebbe vita, infatti, dall’esigenza di ratificare alcune convenzioni internazionali. In particolare, Convenzione sulla tutela finanziaria delle Comunità europea del 1995, Convenzione alla lotta della corruzione nel quale sono coinvolti funzionari dell’Unione Europea del 1997 e la Convenzione OCSE del 1997.
L’OCSE – Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico – è un organismo internazionale che conta oggi ben 37 Nazioni membri, l’Italia è stata proprio tra i primi 20 Paesi fondatori nel 1948.
Ricordare questo aspetto storico evidenzia l’importanza giuridica di una convenzione emanata da questo organismo.
Infatti, nel dicembre 1997, a Parigi i Paesi facenti parte dell’OCSE decisero di sottoscrivere una convenzione per far fronte comune alla lotta del fenomeno della corruzione nelle transazioni economiche internazionali.
La convenzione de qua divenne, pertanto, un’atto giuridico vincolante per i Paesi firmatari per quanto riguardava la lotta alla corruzione, proprio, perché, in molti Paesi che aderirono alla convenzione fino a quel momento, tra questi anche in Italia, non vi era la fattispecie di reato di corruzione di pubblico ufficiale straniero.
Gli Stati aderenti sottoscrittori si vincolarono, pertanto, a ratificare tale convenzione affinché diveniva legislazione in vigore nel proprio Stato imponendo l’introduzione del reato, sia per le persone fisiche che per le persone giuridiche, di corruzione di pubblici funzionari stranieri per ottenere indebiti vantaggi nel commercio internazionale.
La convenzione OCSE tra gli obiettivi primari è, opportuno, ricordare persegue anche quello di esercitare un’efficacia preventiva e dissuasiva a sostegno delle imprese.
Infatti, la relazione ministeriale al D.Lgs 231/01 indica che il legislatore italiano con la legge delega n. 300/2000 ha delegato il governo alla ratifica delle convenzioni de quibus.
L’art. 11, in specifico, della legge Delega ha previsto espressamente la necessità di legiferare “su un sistema di responsabilità sanzionatoria amministrativa degli enti in ottemperanza agli obblighi previsti dalla Convenzione OCSE”. Nella sopra citata relazione, si legge, infatti, “… che in una pluralità di strumenti internazionali e comunitari in specie, in una pluralità di materie vi è la disposizione di previsione di paradigmi di responsabilità delle persone giuridiche a chiusure delle previsioni sanzionatorie sicché la riforma appariva improcrastinabile….”. Sempre la relazione circa la natura giuridica di siffatta responsabilità indica che “l’art. 27 della costituzione non poneva uno sbarramento come realmente si pensava all’introduzione del principio “societas puniri potest”.
La relazione ministeriale nella ricostruzione giuridica posta alla base della motivazione del superamento dello sbarramento al principio “societas delinquere non potest” richiama la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Ho sempre ritenuto molto interessante questo passaggio della relazione de qua, non tanto per l’interpretazione giuridica sia pure apprezzabile che pone siffatto documento, ma perché il richiamo alla Corte Europea fa declinare sempre di più una riflessione giuridica su una valida dimostrazione dell’importanza della normativa e giurisprudenza comunitaria che si ripone in tal guisa.
Le riflessioni giuridiche che pone la normativa 231 sono innumerevoli. Cominciando dal continuo intervento delle direttive europee che hanno esteso nel corso degli anni il novero dei reati presupposto. Il ruolo dell’ODV. I punti di contatto con la normativa anticorruzione, che ne derivano proprio dalla ratifica della convenzione OCSE. I punti di convergenza che pone con le normative che inglobano la Responsabilità Sociali d’Impresa che, se a prima lettura, comparativa, appaiono diverse, realmente, ne risulta ravvisabile, per molti aspetti lo stesso fine giuridico perseguito, etc.
In primis, però, vorrei dedicare l’analisi su due costrutti giuridici che il D.Lgs 231 ha introdotto. Due elementi che sono stati previsti, in modo prudenziale dal legislatore, visto l’excursus storico che ha portato all’approvazione di tale normativa. Ma che a mio avviso sono, invece, proprio gli elementi de quibus che hanno contraddistinto la novità normativa della 231.
Mi riferisco all’introduzione della mancanza dell’obbligatorietà della sua applicazione e l’introduzione della responsabilità amministrativa dell’ente ( non penale), individuando la normativa come destinatari enti dotati di personalità giuridica, società dotate di personalità giuridica e associazione anche prive di responsabilità giuridica.
Analizzo di seguito questi due elementi in particolar modo riguardo alle società.
Primo costrutto giuridico, di cui pongo una breve analisi, quindi, è la non obbligatorietà. Significa che le società che non applicano la normativa non incorrono in violazioni di legge e quindi in sanzione.
Ho sempre considerato un novus giuridico la scelta del legislatore di non prevederne l’obbligatorietà.
Novus giuridico perché tale scelta ha permesso di sviluppare un nuovo modus agendi nella vita d’impresa. Cioè attraverso la previsione della scelta volontaria di applicare la normativa 231, il legislatore ha fornito, di fatto, l’occasione agli organi di un governo dell’impresa di scegliere l’etica cioè di scegliere volontariamente in modo preventivo la valutazione del rischio anche se la non predisposizione volontaria non darebbe origine ad un comportamento “illegale” cioè in violazione di obbligo di norme.
Per rendere al meglio il significato di quanto sopra affermato, prendo in prestito l’espressione in uso in medicina “prevenire è meglio che curare”. Espressione che in medicina indica, appunto, l’importanza per la persona di porre in essere screening di controllo per prevenire le patologie. Riportando il significato di questa espressione alla vita di un’impresa significa che la predisposizione volontaria di un modello organizzativo aiuta a prevenire rischio di curare in futuro una patologia che per l’impresa significa preservarla di eventuale rischio di possibilità di condanna per responsabilità amministrativa.
La 231 si può considerare un esempio di normativa che permette di materializzare il concetto astratto di etica nella vita dell’impresa. La 231 fornisce, pertanto, la possibilità di porre una riflessione sulla differenza fra il concetto di “etica” e di “legalità’. Dove per etica si deve considerare una decisione assolutamente volontaria che miri a produrre il bene e per legalità si deve considerare adempimento per adeguarsi ad obbligo di legge.
Ecco, allora, il novus della normativa de qua. La corporate governance con il D.Lgs 231 non è obbligata dal legislatore, ma è invitata a scegliere volontariamente di porre in essere un modello organizzativo al fine precipuo di prevenire la salvaguardia reputazionale prima e poi processuale della società, nel caso in cui si verificano fatti patologici. Dove per fatti patologici devono essere considerati l’imputazione di fattispecie criminose che rientrano nel novero del catalogo dei reati presupposto dei soggetti apicali d’impresa identificati ai sensi dell’art. 5 della normativa.
Quando indico scelta etica, lungi da me intendere con questa espressione scelte basate sulla morale. Non è compito del giurista d’impresa entrare in una sfera che attiene alla scelta di coscienza di una persona, in quanto il concetto di morale è personale, non spetta, quindi, ad un giurista indicarlo. Quando mi riferisco a scelta etica, intendo una scelta pragmatica, nel senso proprio del termine, scelta che produce risvolti reali positivi per la vita dell’Impresa. Dal momento che, nella maggior parte dei casi, quando si attua un modello organizzativo si concorre, proprio, alla tutela effettiva dell’Impresa al fine di non fare a questa subire condanne ex D.Lgs 231/01 e quindi di conseguenza si concorre a conservare il profitto. Importante, però, è per ottenere questo fine, che la predisposizione del modello organizzativo, del codice etico non devono essere considerati, erroneamente, il punto di arrivo, ma il punto di partenza di un nuovo modus agendi aziendale. Un modo per rendere un punto di partenza per esempio è data dalla best practice dell’introduzione delle c.d clausole etiche nelle stipule contrattuali che abbiano ad oggetto cioè la previsione che la parte contraente dovrà impegnarsi al rispetto del modello de quo.
Nella vita di un’impresa bisogna ricordare che un’eventuale condanna per responsabilità amministrativa ai sensi del D.Lgs 231/01 provoca non solo gli effetti sanzionatori previsti, ma, altresì, provoca enorme danno reputazionale che comporta, già in se’, un notevole danno economico nella perdita dei profitti, provocando ripercussioni gravi anche verso gli stakeholders tutti.
Quindi, stante, la mancanza assoluta di obbligatorietà, tranne alcune eccezioni, di fatto, le conseguenze della scelta di non applicare la normativa 231 potrebbe provocare in futuro un danno totale alla vita dell’impresa. Va da sé che la scelta volontaria di porre in essere l’applicazione della normativa 231, pertanto, non deve essere vista, come spesso, ancora, oggi, solo come un costo d’impresa da sostenere, ma, al contrario, deve essere considerata nell’ottica di una forma d’investimento per la tutela del business futuro d’impresa.
Riporto, di seguito, ai fini di una completezza, la norma che conferma la riflessione sopra citata. Infatti, specificatamente l’art. 6 del D.Lgs stabilisce che:
1. “Se il reato è stato commesso dalle persone indicate all’art.5, comma 1( , lettera a) persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’Ente o di una unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria o funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione ed il controllo dello stesso ) l’ente non risponde se prova che:
a) L’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi;
b) Il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo;
c) Le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione;
d) Non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di cui alla lettera b)”.
Il secondo costrutto giuridico di cui pongo una breve riflessione riguarda l’introduzione della responsabilità amministrativa dell’ente, società etc.
Al contrario delle normative, in tal guisa, della maggior parte dei Paesi europei come Francia, Belgio, Olanda, Irlanda, nei quali la produzione legislativa ha optato per una responsabilità penale dell’ente “strictu sensu”, il legislatore italiano ha introdotto una responsabilità di natura amministrativa, però, prevedendola come conseguenza di una responsabilità penale riconosciuta in capo ai soggetti di cui all’art. 5 D.Lgs 231.
Una forma di responsabilità in tal guisa sembrerebbe ispirata ad una forma di compliance anglosassone. Una particolarità anomala, quindi, perché l’ordinamento giuridico italiano è diverso dai Paesi del Commow law. Però, in questa circostanza normativa il legislatore sembra aver voluto ispirarsi a grandi linee ai c.d “compliance programs” che di fatto possono essere considerati dei programmi organizzativi che sono propedeutici ad uniformare alla legge le condotte dei singoli ed a porre in essere efficaci sistemi di controllo interno al fine di salvaguardare la correttezza e la liceità dell’esercizio d’impresa.
Però, anche se il nostro legislatore sembri sia stato mosso da tale ispirazione anglosassone vi sono, ovviamente, gioco forza, delle differenze di risultato nei confronti della responsabilità. In quanto si evidenzia che nel modello anglosassone l’applicazione dei c.d “compliance programs” permettono di ottenere all’impresa come risultato solo una diminuzione della responsabilità e quindi riduzione della sanzione per l’impresa pari a 80%. Il D.Lgs 231, invece, nel nostro ordinamento prevede che se l’ente ex ante ha predisposto il modello organizzativo, ed un soggetto, in seguito, tra quelli indicati dell’art. 5 della normativa, sia imputato di un reato presupposto, se il giudice penale accerta la giusta applicazione del modello, può ravvisare in capo all’ente l’assoluta mancanza di responsabilità, in quanto dal nostro legislatore è stato previsto in questa ipotesi il beneficio dell’esimente in toto della responsabilità. Quindi è opportuno sottolineare come la responsabilità dell’ente può risultare estranea totalmente quando viene dimostrato la corretta e opportuna applicazione della predisposizione di un modello organizzativo in seno all’impresa. In quanto dalla normativa de qua sono considerati casi di esonero, proprio l’adozione da parte degli enti di modelli organizzativi idonei a prevenire il compimento dei reati.
Una giurisprudenza importante in materia di 231, che chiarisce interpretazione dei costrutti giuridici sopra analizzati si riscontra nella Sentenza Cassazione Penale delle S.U. della Corte di Cassazione n. 38343/2014(2) che ha dedicato un capitolo intero al D.Lgs 231/01.
Le S.U. hanno affermato, in tal pronuncia, il principio di collegamento tra modello di organizzazione e colpa di organizzazione ovvero…. “un documento, un modello che individua i rischi e le misure atte a contrastarli”……” “il non aver ottemperato a tale obbligo fonda un rimprovero, la colpa di organizzazione”…. cioè la Corte delinea che il non ottemperare alla predisposizione di un modello fonda la colpa di organizzazione.
Sempre nella stessa pronuncia le S.U. pongono in rilievo che non esiste un’inversione dell’onere della prova, in quanto deve essere la pubblica accusa che deve dimostrare la commissione del reato da parte della persona fisica, è sempre ruolo del P.M. dimostrare la carente organizzazione dell’ente. L’azienda ha, infatti, afferma la Cassazione, la possibilità di fornire una prova atta a liberarla dalla responsabilità amministrativa…..infatti afferma che “Militano a favore dell’ente, con effetti liberatori, le previsioni probatorie di segno contrario di cui al D.Lgs n 231, art.6, afferenti alla dimostrazione di aver adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi”.
Le S.U. quindi si soffermano sull’elemento di una sorta si può dire di convergenza tra l’onere della prova legato alla commissione del reato da parte della persona fisica e l’onere della prova in ordine alla “carente regolamentazione interna dell’ente”.
In conclusione, le considerazioni sopra esposte quindi confermano, in modo inequivocabile, che l’adozione di un modello risulta, addirittura, idoneo, ad essere considerato esimente di responsabilità dell’ente. Pertanto, ritengo che possa risultare manifesto ed immanente nello stato delle cose il motivo giuridico per il quale consegue l’importanza enorme che riveste la scelta volontaria della corporate governance di voler applicare ex ante la normativa 231.
Intervento di Florinda SCICOLONE, Giurista d’Impresa, Specialist Compliance Management e Senior Legal Counsel c/o Pranema (Gruppo Locorotondo)
Per approfondimenti e normative, consultare i seguenti link e/o riferimenti:
(1) D. Lgs. 231/2001 – Responsabilità amministrativa degli Enti
(2) Corte di Cassazione, Sentenza n. 38343 del 18/09/2014 – caso ThyssenKrupp