hic sunt leones la società del rischio

DVR e rischi di Safety: il Covid-19 al banco di prova delle imprese

11 luglio 2022

di Valeria d’AGOSTINO

Nelle carte geografiche dell’antica Roma in corrispondenza di quelle regioni dell’Africa ritenute ignote, inesplorate o pericolose campeggiava l’espressione latina “hic sunt leones”. Fino a poco tempo fa, volgendo lo sguardo ad una ideale mappa territoriale dell’universo-231, avremmo trovato lo stesso monito con riferimento all’astratta applicabilità di tale disciplina agli enti con sede principale all’estero, ma operanti in Italia.

Come sottolineato in precedenza, tale ipotesi risulta infatti attualmente priva di qualsivoglia copertura normativa, a differenza della speculare ipotesi dell’ente con sede principale in Italia, ma nel cui interesse/vantaggio venga commesso un reato-presupposto all’estero (art. 4, d.lgs. n. 231/01).

La soluzione a simile rompicapo giuridico ha portato ad una contrapposizione netta tra dottrina e giurisprudenza, incentrata sul diverso modo di intendere il rapporto tra reato-presupposto della persona fisica ed illecito della persona giuridica:

  • La dottrina, aderendo alla tesi c.d. massimalista, ha sempre sostenuto l’autonomia della responsabilità ex crimine della persona giuridica rispetto al reato-presupposto della persona fisica, inteso quale mero frammento di un illecito a struttura complessa, così radicando la giurisdizione nel luogo di verificazione della lacuna organizzativa.
  • Viceversa la giurisprudenza, aderendo alla tesi c.d. minimalista, ha decisamente affermato l’inscindibilità del binomio reato-presupposto/responsabilità dell’ente, radicando la giurisdizione mediante il meccanismo della c.d. “traslazione automatica”: il locus commissi delicti dell’illecito amministrativo coincide con quello del reato-presupposto.

Prima del recente intervento della giurisprudenza di legittimità, due importanti arresti di merito hanno affermato con impianto motivazionale sostanzialmente comune(1) (e sposando la tesi minimalista) l’applicabilità del decreto-231 anche alle società straniere operanti in Italia:

  • Caso SIEMENS AG(2): tale pronuncia è celebre per il singolare parallelismo con la circolazione stradale compiuto dal G.i.p. a sostegno della conclusione raggiunta; per quanto sia possibile che «le norme tedesche o quelle di qualsiasi altro paese non prevedano che le autovetture immatricolate e circolanti in tale paese abbiano l’obbligo di essere munite di cinture di sicurezza, ciò ovviamente non toglie che tali autovetture, per accedere alle strade italiane, abbiano l’obbligo di munirsi di tali dispositivi. (…)». Detto altrimenti, le persone fisiche e le persone giuridiche straniere operanti in Italia devono osservare la legge italiana e quindi anche il d.lgs. n. 231/01 «indipendentemente dall’esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che regolino in modo analogo la medesima materia».
  • Strage di Viareggio(3): il Tribunale di Lucca, riprendendo le argomentazioni da ultimo citate, ha affermato l’applicabilità del decreto-231 alle società straniere coinvolte nel procedimento – tra cui alcune tedesche ed austriache – in relazione all’art. 25-septies, d.lgs. cit. (omicidio colposo e lesioni personali colpose, gravi e gravissime, in violazione della normativa a tutela della salute e sicurezza sul lavoro). In grado di appello si è posto invece l’accento sulla necessità di interpretare il decreto-231 conformemente al principio del favor rei, andando a valutare «in concreto, al di là degli aspetti formali, se l’organizzazione adottata dall’ente era idonea per evitare la commissione del reato»(4).

Ad inizio 2020 è quindi intervenuta la Corte Suprema di Cassazione con il primo precedente reso sul punto in sede di legittimità (c.d. Sentenza Calò)(5). Formalizzando con maggiore incisività i ricordati esiti interpretativi emersi in sede di merito, la sentenza de qua – aderendo decisamente alla tesi c.d. minimalista – ha affermato apertis verbis:

  • La vis attractiva del decreto-231 anche nei confronti degli enti stranieri operanti in Italia, il cui illecito amministrativo si perfeziona nello stesso locus di commissione del reato-presupposto, con attrazione in capo all’A.G. nazionale competente per l’accertamento di quest’ultimo anche del sindacato circa la responsabilità ex crimine dell’ente, a nulla rilevando – come invece sostenuto dalle Difese – che la lacuna organizzativa abbia avuto luogo all’estero.
  • L’obbligo per l’ente di osservare la legge italiana e, segnatamente, quella penale, «a prescindere dalla sua nazionalità o dal luogo ove esso abbia la propria sede legale ed indipendentemente dall’esistenza o meno nel Paese di appartenenza di norme che disciplinino in modo analogo la medesima materia anche con riguardo alla predisposizione e all’efficace attuazione di modelli di organizzazione e gestione».

Come era prevedibile, i primissimi commenti della dottrina hanno parlato di requiem del principio di legalità e di tramonto della colpa di organizzazione quale tratto caratterizzante la responsabilità della societas, ma è innegabile come tale sentenza abbia aperto un sentiero ermeneutico dalle importanti implicazioni pratiche e la cui tenuta potrà apprezzarsi solo nel lungo termine, in attesa di ulteriori interventi della giurisprudenza di legittimità(6).

D.V.R. e rischio pandemico da SARS-CoV-2

Nel 1986 il sociologo tedesco Ulrich Beck pubblicava – nello stesso periodo del tragico incidente nucleare di Chernobyl – il visionario saggio “Risikogesellschaft”, ovvero “la società del rischio”, avvertendo l’emergere di rischi e minacce globali capaci di annichilire distanze e confini e di sovvertire il tradizionale dogma di una società “a rischio 0”, votata all’eliminazione/mitigazione di qualsivoglia tipo di rischio. Con una intuizione tra il geniale ed il paradossale: «nella modernità avanzata la produzione sociale di ricchezza va sistematicamente di pari passo con la produzione sociale di rischi».

La eco ed il significato più profondo di questa affermazione li abbiamo però colti solo in tempi più recenti, a partire da quando l’11 marzo 2020 l’O.M.S. ha ufficialmente dichiarato il SARS-CoV-2 pandemia mondiale.
L’intervento messo in campo a livello nazionale è stato dirompente, in un’emergenza divenuta da sanitaria presto economica, sociale, umana. In particolare, il contrasto alla diffusione del virus sui luoghi di lavoro è consistito in una inconsueta partnership pubblico-privato, ritagliando alle imprese l’inedito ruolo di presidi di sicurezza nazionale, orientati a proteggere non solo in via immediata la salute e sicurezza dei propri lavoratori, ma – in via mediata – della collettività tutta.

La febbrile normativa emergenziale, ispirandosi al principio di precauzione, si è così strutturata in una piramide a tre livelli, composta da:

  • Regole minime di provenienza statale, cristallizzate nei D.P.C.M. e nei decreti-legge via via susseguitisi.
  • Protocolli condivisi tra Governo e parti sociali per il contrasto e il contenimento della diffusione del Covid-19 negli ambienti di lavoro (quello generale del 14 marzo 2020, integrato il 24 aprile 2020, il 6 aprile 2021 e – infine – il 30 giugno u.s.(7), unitamente a quelli settoriali di cantieri, trasporto e logistica).
  • Protocolli aziendali c.d. tailor-made, ossia ritagliati su misura della singola realtà imprenditoriale, integrando le misure previste dai Protocolli condivisi con «altre equivalenti o più incisive, secondo le peculiarità della propria organizzazione, previa consultazione delle rappresentanze sindacali aziendali»(8).

Nel sistema così delineato riveste centralità assoluta l’art. 29-bis della L. n. 40/2020 (di conversione del c.d. “Decreto Liquidità”), a mente del quale i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’art. 2087 c.c. applicando le prescrizioni del Protocollo generale del 24 aprile e s.m.i., oltre a quelli regionali e provinciali ex art. 1, co. 14, d.l. n. 33/2020, nonché mediante l’adozione ed il mantenimento delle relative misure.

Ciò posto, un rompicapo giuridico su tutti ha attanagliato gli imprenditori a partire dalle primissime fasi della pandemia: la necessità o meno di aggiornare il D.V.R. (Documento di Valutazione dei Rischi) ex art. 29, co. 3, T.U.S.L. in presenza del rischio pandemico da coronavirus. Si sono così contrapposti due indirizzi dottrinali, involgenti lo stesso modo di intendere da un lato il rapporto tra normativa emergenziale e sistema prevenzionistico del T.U.S.L., dall’altro l’effettiva natura del rischio pandemico:

  • No all’aggiornamento del D.V.R.: muovendo dall’autonomia tra sistemi normativi, lo esclude – eccezion fatta per il settore sanitario-ospedaliero – sul presupposto della natura generica del rischio da contagio, incidente sul lavoratore alla stessa stregua della collettività, già valutato ex ante dalla pubblica autorità (in tal senso si sono mossi anche i primi interpreti istituzionali)(9).
  • Sì all’aggiornamento del D.V.R.: premessa l’inscindibilità del connubio esistente tra sistema emergenziale/T.U.S.L., il rischio pandemico avrebbe comunque natura professionale, sub specie di rischio generico aggravato ovvero specifico. Tale constatazione, ormai maggioritaria, si basa – al netto di plurimi indizi normativi in tal senso(10) – su due considerazioni:
  1. In un momento in cui l’allontanamento dal domicilio è stato a lungo consentito solo in presenza di comprovate ragioni, l’attività di lavoro è divenuta ex sé un fattore di accrescimento del rischio sanitario rispetto al non-lavoratore.
  2. La natura di rischio c.d. professionale non va riferita al tipo di produzione, bensì alla singola mansione concretamente svolta dal lavoratore: difatti, accanto a lavorazioni che non innalzano il rischio di contagio rispetto alla collettività, ve ne sono altre che implicano naturalmente un rischio differenziale di essere contagiati (ad es. attività di relazione con clienti, fornitori; addetti al front-office di un ufficio pubblico, supermercato, etc.).

Pertanto, mentre nelle strutture sanitario-ospedaliere il rischio da contagio è in re ipsa (con necessario aggiornamento del DVR), nelle altre strutture lavorative è comunque fisiologico – ex art. 29, co. 3, T.U.S.L. e secondo le causali ivi previste – rivalutare in ottica prudenziale l’impatto delle misure anti-contagio previste a livello centrale sui singoli processi produttivi e sul pregresso sistema prevenzionale (si pensi, ad es., alle misure del distanziamento o dello smart-working), tramite un protocollo decentrato e cucito su misura del singolo ente, come addendum, allegato, appendice o integrazione al D.V.R.(11).

 

Intervento di Valeria d’AGOSTINO, Avvocato penalista – LLM in Diritto Penale di Impresa.

Questo articolo è un estratto della – LEGGI QUI – Tesi di Master di II livello in Diritto Penale di Impresa di Valeria d’AGOSTINO dal titolo Travel security e valutazione dei rischi  |  LUISS School of Law  | Relatore Avv. Agostino SARANDREA  |  Direttore del Master Prof.ssa Paola SEVERINO

 

LEGGI QUI l’articolo precedente  1/3,  Travel Security e valutazione dei rischi: un esempio di “effetto farfalla”

LEGGI QUI l’articolo precedente  2/3,  DVR e rischi di Security: la vocazione extra-territoriale del D.Lgs. 231/01

LEGGI QUI l’articolo attuale  3/3,  DVR e rischi di Safety: il Covid-19 al banco di prova delle imprese

 


Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti:

(1)   L’addentellato normativo posto da entrambe le pronunce a conforto dell’applicabilità del decreto-231 agli enti stranieri, ma operanti in Italia, risiede negli artt. 3 e 6, co. 2, c.p. (principi di obbligatorietà e territorialità della legge penale); nell’art. 1, d.lgs. n. 231/01, ove in ambito di applicazione soggettiva non si distingue tra enti nazionali/stranieri; nell’art. 4, d.lgs. cit., mediante argomentazione a majori ad minus, tale per cui se il decreto si applica agli enti italiani nel cui interesse/vantaggio sia compiuto un reato all’estero, a maggior ragione lo stesso dovrà avvenire per quei reati commessi in Italia da soggetti apicali/sottoposti appartenenti ad un ente straniero; nelle norme di stampo processuale ex artt. 34 e 36, d.lgs. cit., nonché nell’art. 97-bis, co. 5, T.U.B (disciplina applicabile alle succursali italiane di banche comunitarie/extra-comunitarie); infine, nei principi euro-unitari di libertà di prestazione dei servizi e di stabilimento (artt. 49 e 54 TFUE).

(2)   Cfr. Ordinanza del G.i.p. presso il Tribunale di Milano, 27 aprile 2004, con cui in sede cautelare e su richiesta del P.M. il G.i.p. ha applicato la sanzione interdittiva del divieto temporaneo di contrattare con la P.A. ex art. 9, d.lgs. n. 231/01, ad una società tedesca, ma operante in Italia mediante una Associazione Temporanea di Imprese (A.T.I.), per non aver impedito la commissione su suolo nazionale di fatti corruttivi ad opera di un consulente e due dipendenti della predetta societas.

(3)   Cfr. Sentenza del Tribunale di Lucca, 31 luglio 2017, n. 222; v. altresì Sentenza della Corte di Appello di Firenze, Sez. III, 16 dicembre 2019, n. 3733.

(4)   Esaminando quindi i presidi effettivamente posti in essere dall’ente straniero a prescindere dal nomen iuris e dall’etichetta ad essi formalmente assegnata.

(5)   Cfr. Cass. Pen., Sez. VI, 7 aprile 2020, n. 11626, in relazione al caso Boskalis: la vicenda trae origine da una serie di condotte corruttive perpetrate tra il 2001 ed il 2004 dai vertici di due società del gruppo olandese “Boskalis”, entrambe con sede all’estero, in concorso con il coadiutore del curatore fallimentare, percettore di illecite erogazioni in denaro in cambio dei favoritismi alle stesse riservate nell’acquisizione dei beni di altra societas, dichiarata fallita nel 2002.

(6)   Una prima, importantissima conferma dell’impianto motivazionale sotteso alla prima pronuncia di legittimità resa sul tema (caso Boskalis – c.d. Sentenza Calò) è provenuta all’esito del giudizio di Cassazione promosso proprio in relazione alla strage di Viareggio: in tale frangente gli Ermellini, pur essendo giunti ad escludere la sussistenza dell’aggravante della violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro ex artt. 589, co. 2, e 590, co. 3, c.p. (con conseguente esclusione della responsabilità degli enti in relazione all’art. 25-septies, d.lgs. n. 231/01) hanno dovuto affrontare preliminarmente la questione relativa alla giurisdizione nazionale sugli enti stranieri, facendo sostanzialmente proprie «le scansioni argomentative e le conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza Calò, giudicandole condivisibili», sia pure al netto di alcune precisazioni su aspetti non direttamente presi in esame dalla pronuncia richiamata (così Cass. Pen., Sez. IV, 8 gennaio 2021, n. 32899, pp. 330 e ss.). Il caso è peraltro tornato alla ribalta lo scorso 30 giugno 2022, quando la Corte di Appello di Firenze – giudicando in sede di rinvio – ha disposto 13 condanne e 3 assoluzioni.

(7)   Per quanto ai nostri fini, il Protocollo condiviso del 14 marzo 2020, integrato il 24 aprile 2020, aveva sancito la sospensione di tutte le trasferte ed i viaggi di lavoro, nazionali ed internazionali. In data 6 aprile 2021 lo stesso è stato quindi aggiornato nel senso di consentire viaggi e trasferte professionali, ma non senza una valutazione congiunta ad opera di datore di lavoro, medico competente e R.S.P.P. circa il contesto effettivo della trasferta, avuto riguardo anche alla situazione epidemiologica del Paese di destinazione (cfr. M. Biolchini – G. Bifano, Le aziende riavviano le trasferte. Ecco le regole post-Covid, Il Sole 24 Ore, 4 giugno 2021). Da ultimo, il predetto Protocollo è stato aggiornato il 30 giugno u.s. tenendo conto dell’attuale evoluzione della situazione pandemica: le Parti si sono impegnate a incontrarsi nuovamente in caso di variazioni significative necessitanti una rimodulazione delle misure di prevenzione adottate e – in ogni caso – entro il 31 ottobre 2022 (v. A. Gagliardi, Mascherina, pulizia e spazi comuni: cosa cambia dal 1°luglio nei luoghi di lavoro privato, Il Sole 24 Ore, 1 luglio 2022).

(8)   Così il Protocollo condiviso del 14 marzo 2020, integrato il 24 aprile 2020.

(9)   Cfr. Regione Veneto, 3 marzo 2020; v. INL, Nota del 13 marzo 2020, n. 89.

(10)   A tal proposito vengono in rilievo gli artt. 15, co. 1, lett. a) e 17, co. 1, lett. a), T.U.S.L., che positivizzano una valutazione omnibus dei rischi lavorativi, indipendentemente dalla loro natura, generica, specifica, esogena o endogena; l’art. 2, co. 1, lett. q), T.U.S.L. in cui si parla di rischi per la salute e la sicurezza dei lavoratori «presenti nell’ambito dell’organizzazione in cui essi prestano la loro attività»; l’art. 28, co. 2, lett. a), T.U.S.L., ove si tratta di «tutti i rischi per la sicurezza e la salute durante l’attività lavorativa»; sino a giungere agli orientamenti maturati in relazione ai travel-related risks cui sono esposti i dipendenti inviati all’estero, tanto di safety, quanto di security (cfr. Commissione per gli Interpelli, Interpello n. 37412/2016, oltre alla pronuncia resa nel caso Bonatti S.p.A.). Sarebbe del tutto irragionevole richiedere al datore di lavoro di valutare il rischio aggravato corso dal lavoratore all’estero (dove ad esempio è in corso una epidemia, criticità che le imprese italiane si sono dovute porre ad inizio 2020 rispetto ai viaggi professionali a Wuhan) e – al contrario – esonerarlo laddove quella stessa emergenza sanitaria sia in corso in Italia.

(11)   A fortiori, necessiteranno di aggiornamento tanto il D.U.V.R.I. ex art. 26, co. 3, T.U.S.L., quanto – nell’ambito dei cantieri temporanei o mobili – il P.S.C. (Piano di Sicurezza e Coordinamento) ex art. 100 T.U.S.L.



  • Commento Utente

    Gennaro Troiso

    Interessante spunto. Offre anche una visione non “social” e non nota al grande pubblico di implicazioni tematiche legate alla pandemia covid che hanno inciso sulla vita di tutti. Ottima analisi. Grazie.

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