di Valeria d’AGOSTINO
Le dimensioni assunte dalla globalizzazione economica rendono sempre più frequente l’invio all’estero di personale appartenente a realtà imprenditoriali nazionali.
Ai fini della travel security diviene quindi cruciale tratteggiare gli esatti contorni della posizione di garanzia del datore di lavoro verso i lavoratori, individuati alla stregua della nozione omnicomprensiva dell’art. 2, co. 1, lett. a), T.U.S.L.(1)
L’obbligo di protezione ex art. 40 cpv c.p. gli impone infatti di adempiere all’obbligazione di sicurezza qualunque sia la destinazione del personale e a prescindere dalla declinazione concretamente assunta dalla c.d. mobilità geografica (trasferta, distacco internazionale oppure appalto presso committente estero), con le dovute precisazioni.
Da un lato, l‘entità e l’onerosità di tale operazione risultano inevitabilmente sensibili al tipo di Paese dove il lavoratore andrà ad operare. La distinzione Paesi-UE/Paesi extra-UE implica per il datore di lavoro un doppio screening: di contesto geopolitico e di contesto normativo. Se infatti relativamente ai Paesi-UE è più semplice imbattersi in uno statuto in tema di sicurezza “ad immagine e somiglianza” di quello italiano, nel caso dei Paesi extra-UE il quadro è destinato a cambiare: il lavoro sarà più complesso, dovendosi verificare il grado di vicinanza tra Paese ospitante e Paese di provenienza, supplendo a possibili mancanze rispetto al background nazionale o eventualmente ottemperando ai più elevati standard locali. In ambito europeo vengono in rilievo la ricordata Direttiva quadro n. 89/391/CE in materia di salute e sicurezza, la Direttiva n. 96/71/CE (e s.m.i.) in materia di distacco, nonché il Regolamento CE n. 593/2008 (c.d. Roma I) e la Direttiva n. 2020/1057/UE in materia di trasporto su strada.
Parallelamente, la modulazione dell’obbligazione di sicurezza risulta differente a seconda della forma della mobilità geografica:
- Trasferta (dipendente in trasferta, c.d. business traveler): copre l’intera durata della missione, trattandosi di variazione solo temporanea del luogo di lavoro.
- Distacco internazionale (dipendente all’estero, c.d. expat)(2): venendo il lavoratore provvisoriamente posto dal datore di lavoro (distaccante) a disposizione di altro soggetto beneficiario (distaccatario) per l’esecuzione di una determinata attività lavorativa/servizio, essa grava – in modo differenziato – su entrambi; il primo deve informare e formare il lavoratore sui rischi tipici delle mansioni oggetto di distacco, oltre a rimanere responsabile del relativo trattamento economico, normativo ed assicurativo; il secondo è titolare di tutti gli altri obblighi in materia di salute e sicurezza(3).
- Appalto di lavori, servizi o forniture presso committente estero: committente ed appaltatore, per fronteggiare eventuali rischi derivanti dal sovrapporsi di attività diverse, hanno un obbligo di cooperazione e coordinamento; in particolare, il committente è onerato dell’elaborazione del D.U.V.R.I.(4) (art. 26 T.U.S.L.).
In questo contesto, il d.lgs. n. 231/01, pur applicandosi principalmente ai reati-presupposto commessi su suolo domestico, si apre – non senza problemi – ad ipotesi di efficacia extra-territoriale, in una duplice prospettiva:
- Enti con sede principale in Italia operanti anche all’estero (art. 4, d.lgs. n. 231/01).
- Enti stranieri operanti in Italia, ipotesi formalmente priva di copertura normativa.
Per stabilire quando i «reati commessi all’estero» possano impegnare la sfera di responsabilità dell’ente con sede principale in Italia occorre leggere l’art. 4, d.lgs. cit.(5) in combinato disposto con l’art. 6 c.p.: poiché a mente di tale norma un reato si considera commesso su suolo nazionale quando l’azione od omissione che lo costituisce vi è avvenuta in tutto o in parte, ovvero vi si è verificato l’evento, l’art. 4 si applica solo laddove il reato-presupposto sia stato perfezionato integralmente all’estero.
Tanto premesso, la disposizione de qua subordina l’efficacia extra-territoriale del sistema-231 a condizioni di ordine:
- Espresso:
1. L’ente deve avere la sede principale in Italia, nozione intesa – onde evitare elusioni tramite sedi legali “di facciata” e in linea con la pacifica giurisprudenza – in senso sostanziale, quale centro della prevalente attività amministrativa di direzione ed organizzazione dell’ente. Ne consegue l’impossibilità di applicare il sistema-231 agli enti stranieri per i reati commessi all’estero, a differenza della persona fisica (v. art. 10 c.p.).
2. Nei suoi confronti non deve procedere «lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto»: una sorta di ne bis in idem nei rapporti internazionali, legato alla fase dell’attivazione procedimentale. Differentemente da quanto previsto ex art. 11 c.p., laddove il cittadino/straniero già giudicati all’estero possono essere di nuovo perseguiti in Italia a richiesta del Ministero della Giustizia.
3. Richiesta del Ministero della Giustizia nei confronti della societas ove prevista anche per la persona fisica (co. 2).
- Oggetto di rinvio (artt. 7-10 c.p.)(6), con alcune puntualizzazioni:
1. Per effetto del rinvio, l’ente non può essere ritenuto responsabile di tutti i reati in essi richiamati in ragione del c.d. “principio di doppia legalità” (art. 2, d.lgs. n. 231/01): la societas può quindi rispondere solo dei reati rientranti nel catalogo-231 (artt. 24 e ss.).
2. Il tipo di reato attratto da tali norme consiste solo nei delitti, rimanendo quindi escluse la fattispecie contravvenzionali commesse all’estero.
3. Le criticità interpretative rilevate per la persona fisica rispetto agli artt. 9-10 c.p. (segnatamente, la necessità o meno della doppia incriminazione e la natura giuridica della presenza del reo nel territorio dello Stato) non hanno ragione di porsi per l’ente, valorizzando il requisito della sede principale Italia (littera legis dell’art. 4) alla luce del principio di autonomia della responsabilità della persona giuridica (art. 8, d.lgs. n. 231/01).
I rischi “ambientali” come rischi tipici
La prima pronuncia ad aver sancito in sede penale di merito la responsabilità sia delle persone fisiche che dell’ente per il deficit di sicurezza del personale inviato all’estero sotto il profilo della security(7) è stata la sentenza emessa dal Tribunale di Roma in data 22 gennaio 2019, all’esito di rito abbreviato, nei confronti della società emiliana Bonatti S.p.A. e dei suoi vertici(8) in relazione all’art. 25-septies, d.lgs. n. 231/01.
Nel luglio 2015, per fronteggiare impellenti esigenze produttive degli hotspot libici, il Dirigente responsabile per la Libia disponeva il trasferimento dei quattro tecnici provenienti dall’Italia presso i cantieri tramite auto privata e in assenza di scorta, nonostante la prassi gestoria dei rischi c.d. in itinere approntata solo in via di puro fatto dalla societas prevedesse – data la nota instabilità politica di quei territori – il divieto del loro svolgimento via terra, con spostamento esclusivamente via aereo/via mare con nave militare a ciò preposta. Lungo il tragitto i dipendenti venivano sequestrati e nel febbraio 2016 due di loro perdevano la vita in un violento scontro a fuoco tra sequestratori e terzi.
L’approdo giurisprudenziale de quo è innovativo sotto molteplici aspetti(9), ma il vero quid novi è rappresentato dall’inclusione dei rischi c.d. di security (anche detti “ambientali”) nel fuoco di azione del D.V.R. (Documento di Valutazione dei Rischi) e dall’affermazione dell’imprescindibile procedimentalizzazione a livello formale delle misure di sicurezza quale unico strumento in grado di garantire, attraverso i meccanismi di controllo e monitoraggio previsti, la concreta adeguatezza ed efficacia della regola di condotta.
La Difesa, per dimostrare l’irresponsabilità dei propri assistiti, ha proposto una rigida distinzione tra rischi di:
- Safety: endogeni e tipici.
- Security: esogeni (non connessi a peculiarità dell’attività lavorativa), atipici (non conseguenziali rispetto ad eventi già verificatisi) e non classificabili (con annessa difficoltà di neutralizzazione/minimizzazione).
Inoltre, prima dell’Interpello n. 11/2016 della Commissione Consultiva del Lavoro non vi era alcuna previsione legislativa che obbligasse il datore di lavoro ad inserire nel D.V.R. tutti i rischi, ivi compresi quelli di security.
Il Tribunale, disattendendo le argomentazioni difensive, ha statuito che:
1. La normativa richiamata è inferiore rispetto a quella di rango legislativo in materia, nulla aggiungendo all’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema.
2. Il datore di lavoro non deve solo individuare e valutare tutti i rischi connessi allo svolgimento dell’attività lavorativa al di là di norme ad hoc, ma anche revisionare ed aggiornare periodicamente il D.V.R., strumento espressivo della capacità dell’impresa di adattarsi e modificarsi di pari passo con il mutare della struttura del rischio.
3. La netta distinzione tra rischi di safety/security è aprioristica ed errata(10): allorché la dinamica imprenditoriale si svolga in veri e propri “teatri bellici” gli stessi divengono prevedibili, assumendo il carattere di rischi tipici, con obbligo del datore di lavoro a individuarli e valutarli in quanto strettamente connessi all’attività lavorativa oppure alle particolari modalità del suo svolgimento.
4. L’essenza della colpa organizzativa dell’ente consiste nell’aver gestito i rischi in itinere a livello di pura prassi, senza prevederli né nel modello-231, né nel D.V.R.: solo la procedimentalizzazione formale avrebbe consentito ai dipendenti di essere informati in ordine all’entità di tali rischi, nonché l’attivazione dei meccanismi di controllo e monitoraggio previsti dalla legge oltre che del sistema disciplinare(11).
Nell’attesa di saggiare se tale precedente interpretativo sarà o meno confermato nei successivi gradi di giudizio e dalla giurisprudenza di legittimità, resta l’indubbio pregio di aver plasmato un datore di lavoro non mero esecutore di prescrizioni normative, bensì assoluto protagonista del sistema di salute e sicurezza sul lavoro; responsabile dell’individuazione e valutazione di tutti i rischi, della predisposizione delle misure più congeniali per farvi fronte, ma anche e soprattutto della loro cogenza, unico modo per garantirne la regolare e costante attuazione.
Intervento di Valeria d’AGOSTINO, Avvocato penalista – LLM in Diritto Penale di Impresa
Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti:
(1) Per tali intendendosi non solo coloro i quali sono inseriti nella società a titolo di lavoro subordinato, ma chiunque «indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un’attività lavorativa nell’ambito dell’organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere, un’arte o una professione, esclusi gli addetti ai servizi domestici o familiari»: dunque, anche coloro che non sono formalmente dipendenti del datore di lavoro (si pensi a consulenti, liberi professionisti, tecnici o agenti).
(2) La cui disciplina va rinvenuta, oltre che nella menzionata normativa comunitaria, nell’art. 3, co. 6, T.U.S.L., nell’art. 30, d.lgs. n. 276/2003 e nell’art. 2, L. n. 398/1987.
(3) Cfr. Interpello n. 8/16, Commissione per gli Interpelli, liberamente consultabile online all’indirizzo https://olympus.uniurb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=15125:interpello-n-82016-risposta-al-quesito-relativo-alla-corretta-interpretazione-allobbligo-della-sorveglianza-sanitaria-di-cui-allart-41-del-dlgs-n-812008&catid=186&Itemid=140.
(4) Ovvero Documento Unico di Valutazione dei Rischi da Interferenze.
(5) Cfr. Art. 4, d.lgs. n. 231/01, rubricato «Reati commessi all’estero»: «1. Nei casi e alle condizioni previsti dagli articoli 7, 8, 9 e 10 del codice penale, gli enti aventi nel territorio dello Stato la sede principale rispondono anche in relazione ai reati commessi all’estero, purché nei loro confronti non proceda lo Stato del luogo in cui è stato commesso il fatto. 2. Nei casi in cui la legge prevede che il colpevole sia punito a richiesta del Ministro della giustizia, si procede contro l’ente solo se la richiesta è formulata anche nei confronti di quest’ultimo».
(6) Laddove l’art. 7 c.p. prevede delle ipotesi di efficacia extra-territoriale incondizionata della legge penale nazionale riferita a chi, cittadino o straniero, commetta una delle specifiche ipotesi di reato ivi previste; l’art. 8 c.p. riguarda il delitto politico commesso all’estero, mentre gli artt. 9-10 c.p. positivizzano ipotesi di efficacia territoriale condizionata, punendo il delitto comune del cittadino o dello straniero all’estero.
(7) Prima di allora si trattava di puro affare di diritto civile o amministrativo (v. il caso SORIGE, Cass. Civ., Sez. Lav., 22 marzo 2002, n. 4129 e il caso C.M.C., Tribunale di Ravenna, 23 ottobre 2014). In entrambi i frangenti i datori di lavoro sono stati condannati al risarcimento dei danni – rispettivamente – in seguito ad un sequestro verificatosi in Etiopia e ad un attentato terroristico in Algeria.
(8) Cfr. Sentenza del G.u.p. presso il Tribunale di Roma, 22 gennaio 2019 (dep. 27 febbraio 2020), n. 125.
(9) Tra tutti, la vexata quaestio relativa alla configurabilità per le organizzazioni complesse della cooperazione colposa ex art. 113 c.p. nell’evento morte, doloso, degli ostaggi.
(10) Segnatamente, mentre i rischi c.d. di safety individuano tutti i pericoli rivolti all’incolumità dei dipendenti, viceversa i rischi c.d. di security afferiscono a quelli propriamente criminosi.
(11) Oltre all’omessa valutazione nel D.V.R., sarebbero stati violati gli obblighi informativi, di consultazione e di collaborazione dei vari protagonisti del sistema di prevenzione (artt. 28-29 T.U.S.L.), unitamente alla mancanza – ad opera degli organi preposti – di qualunque attività di controllo circa l’ottemperanza delle misure stabilite in via di fatto e di monitoraggio della loro efficacia nel tempo, garantita per il tramite di un sistema disciplinare volto a sanzionare chi disattenda le misure precauzionali adottate (art. 30, co. 4, T.U.S.L.).