“In cibernetica, una macchina intelligente è ogni macchina capace di imitare un comportamento ritenuto peculiare dell’intelligenza umana (giocare a scacchi, risolvere problemi di geometria, tradurre da una lingua in un’altra, ecc.), restando impregiudicato se tale imitazione sia limitata agli aspetti meno complessi e profondi del meccanismo di azione del pensiero, o invece possa spingersi, almeno in linea teorica, fino alla completa riproduzione di quel meccanismo.”
Da questa definizione di intelligenza artificiale (AI), tratta da uno dei più conosciuti vocabolari della lingua italiana, l’imitazione del comportamento umano, restando impregiudicata, può limitarsi ad acquisizioni derivanti da criteri consequenziali e deterministici del tipo if-this-then-that o riguardare tecniche di apprendimento basate sul deep learnig.
Il deep learnig, utilizza algoritmi che consentono di apprendere dai dati che si hanno a disposizione; niente regole o istruzioni già preconfezionate nella programmazione, ma sarà lo stesso software ad autoistruirsi imparando regole e comportamenti dalle informazioni e dai dati che potrà esaminare. Più che di intelligenza artificiale si potrebbe parlare di “formazione artificiale” alla stessa stregua di un bambino che, giunto all’età matura, manifesterà comportamenti e osserverà regole che avrà appreso nel suo ambiente socio-familiare-educativo. Non è difficile immaginare che dati e informazioni forniti alle “macchine” determineranno il prodotto finale. E al riguardo c’è già chi lancia severi ammonimenti per i pericoli che possono derivare da un utilizzo massivo, incontrollato e sconsiderato dell’AI.
Fino a dove può spingersi la riproduzione dei meccanismi appresi? Dipende da dove si vuole farla arrivare e comunque il risultato finale non è detto che sia scontato o predeterminabile. Non che l’elemento sorpresa debba necessariamente essere visto in negativo; ad esempio una strategia aziendale di successo potrebbe derivare dall’analisi di dati e informazioni (che la mente umana non avrebbe capacità di elaborare in tutte le sue sfaccettature) e fornire soluzioni vincenti di intervento inaspettate e sorprendenti rispetto alle attese. L’utilizzo dell’apprendimento profondo, proprio nel campo delle strategie aziendali, è ormai un passaggio obbligato per le imprese che puntano sull’innovazione tecnologica.
L’applicazione dell’AI, con tecniche diverse dal deep learning, si sposa benissimo con la tecnologia blockchain e con i contratti intelligenti. Questi smart contracts, appunto, consentono di garantire che al verificarsi di determinate condizioni si possa concludere un’operazione o quanto espressamente indicato dalle parti al momento in cui il contratto è stato scritto. Sostanzialmente, un programma esegue dettagliatamente le istruzioni che sono state precedentemente dettate da uno sviluppatore dopo averne verificato il rispetto delle clausole concordate; successivamente il contratto, sotto forma di algoritmo, condiviso in un archivio pubblico nella rete blockchain, sarà immutabile.
I contratti intelligenti sono già usati nel settore del commercio on-line e nelle piattaforme più avanzate è possibile concludere la transazione con l’utilizzo di procedure completamente automatizzate nel rispetto delle condizioni poste e senza che le parti si incontrino. Nelle assicurazioni gli smart contracts corrono molto velocemente e le compagnie ormai tendono a non limitare alle sole classi di merito l’applicazione delle tariffe, ma introducono nuovi parametri legati principalmente al comportamento del guidatore per il calcolo del premio assicurativo. È ancora possibile utilizzare i contratti intelligenti nelle negoziazioni di derivati finanziari, nelle operazioni di locazione e diritto di proprietà, nella concessione del credito, nei servizi finanziari, nella raccolta fondi e perfino nell’espressione del diritto di voto.
La piattaforma che più di tutte ha investito, offrendo agli sviluppatori la possibilità di utilizzare in modalità peer to peer le Apps per realizzare con procedure completamente automatizzate ciò che in genere richiede l’intervento di un intermediario terzo, è stata Ethereum.
Ethereum è nata per opera di un talentuoso e giovane sviluppatore canadese di origini russe nel 2013 ed è una blockchain decentralizzata, pubblica e di tipo open source che si differenzia dalla rete Bitcoin perché può essere usata sia per le criptovalute e sia per i contratti intelligenti. La moneta virtuale della blockchain Ethereum si chiama Ether e serve ad alimentare la rete remunerando gli sviluppatori che utilizzano la piattaforma per la creazione e la distribuzione delle applicazioni decentralizzate. Ethereum (ETH) è anche la criptovaluta creata con l’omonima tecnologia blockchain e vale attualmente più di 600 dollari, è seconda solo a Bitcoin come capitalizzazione di mercato e non c’è limite massimo alla quantità di emissione.
Ethereum si è fatta conoscere, si è apprezzata all’inverosimile pur non essendo una criptovaluta con quantità già definita e il suo successo è sicuramente attribuibile in larga parte alla sua piattaforma pensata per lo sviluppo dei contratti intelligenti. Ma un altro aspetto, forse sottovalutato e legato alla stessa diffusione della tecnologia blockchain e delle criptovalute, ha anche contribuito, e non di poco, ad accrescere la notorietà e il valore di Ethereum: la prevendita di token.
Circa il 50% delle criptovalute in circolazione tra le prime 100 per capitalizzazione di mercato sono state create su token di Ethereum. Eos, Tron e Vechain, per citare solo le prime tre che da sole valgono 16 miliardi di dollari, in una fase di prevendita (ICO- Initial Coin Offering), necessaria alla raccolta dei fondi per finanziare il progetto, hanno distribuito token in cambio di Ether. Le operazioni hanno incrementato la richiesta di Ether aumentandone certamente anche il valore.