Un’organizzazione può essere concepita come un framework in cui agiscono 3 elementi: la missione, la struttura organizzativa (in gergo, organigramma), i processi. Qui vogliamo focalizzarci sui processi mentre per gli altri due elementi rinviamo ad un altro articolo(3).
Il terzo componente del framework organizzativo è costituito dai processi a cui, è utile chiarirlo fin da subito, sono riconducibili le maggiori criticità presenti nel contesto organizzativo.
Si tratta di un elemento che, mentre sotto un profilo concettuale non presenta particolari difficoltà, nella fase implementativa mostra, dall’analisi di numerose realtà aziendali, profondi e diffusi limiti.
La rilevanza dei processi è costantemente sottolineata in letteratura: limitandoci ad un esempio potremmo ricordare che secondo Karl E. Weick, uno dei più influenti studiosi in campo organizzativo, le organizzazioni vanno intese come un insieme di processi e non come strutture.
Una definizione che, a mio avviso, assume un particolare interesse, in quanto pone il focus sul “destinatario” dei risultati delle attività, è quella di Bartezzaghi per il quale il processo può essere definito come «un insieme organizzato di attività e di decisioni, finalizzato alla creazione di un output effettivamente domandato dal cliente, e al quale questi attribuisce un valore ben definito»(4).
Sotto un profilo strutturale, in ogni processo, come raffigurato nella Figura 4, sono presenti:
- un input, che dà l’avvio al processo, costituito da un insieme di elementi che comprende risorse umane, strumentali e finanziarie nonché fattori condizionanti – vincoli e opportunità – tra i quali assumono particolare rilievo le normative, i tempi e le “specifiche” stabilite per l’output;
- un output, e cioè il prodotto/ risultato delle attività di un determinato processo, che può essere “finale” se è rivolto ad un cliente esterno oppure “intermedio” se, invece, è destinato ad un soggetto interno all’organizzazione (in quest’ultimo caso l’output rappresenta l’input di un ulteriore processo);
- le attività, che devono essere individuate e coordinate in modo tale da assicurare la massima efficacia, efficienza ed economicità e, nel contempo, il rispetto di tutti i vincoli cogenti (compliance), tenendo sotto controllo i parametri critici e, in particolare i fattori condizionati – quali i costi, i tempi di esecuzione e la qualità dell’output – sopra richiamati a proposito dell’input.
Figura 4 – Lo schema processuale
Alla distinzione tra output finali e intermedi è correlata quella tra processi primari e secondari, di cui è nota la teorizzazione di Porter attraverso il concetto di “catena del valore”: i primi creano direttamente un valore riconosciuto dal cliente esterno (ad esempio sono quelli relativi alla produzione, alla logistica e all’erogazione e vendita) mentre i processi secondari (o di supporto) sono funzionali ai processi primari e non creano di per sé un valore riconosciuto dal cliente esterno in quanto rivolti al cliente interno (in questa categoria, ad esempio, possono essere compresi i processi afferenti la gestione del personale, la finanza, l’amministrazione, la pianificazione, ecc.).
La strutturazione del processo – e quindi l’analisi delle attività che lo compongono – richiede un’operazione tanto importante quanto trascurata: quella della “definizione degli attributi”.
Questa espressione si riferisce alla necessità di individuare tutti quegli attributi che occorre tenere presente per soddisfare esigenze finanziarie, produttive, di compliance, ecc.
Ad esempio, nella mappatura, per ogni processo occorre rilevare quali siano le informazioni di cui necessita; se sia o meno previsto il trattamento di dati personali, in modo da realizzare un modello adeguato di data protection; il numero di giornate/persone ad esso dedicate, per poter comparare un indice di produzione teorico predeterminato con quello effettivo (e quindi per poter utilizzare un criterio oggettivo per fissare la consistenza degli organici del personale, la produttività, i costi, e così via).
Tutto ciò è indispensabile anche per stabilire cosa vada automatizzato e, quindi, per poter procedere all’informatizzazione attraverso applicativi gestionali e cruscotti direzionali.
Una volta che viene strutturato il processo, occorre individuare il suo responsabile (il process owner) e, infine, definire un sistema di misurazione indispensabile per valutare i parametri ritenuti significativi (fondamentalmente l’efficienza e la conformità).
L’ultima operazione è quella di mappare tutti i processi primari e secondari dell’organizzazione realizzando una tassonomia (e cioè di un elenco che li comprenda tutti) e, quindi, “disegnare” ciascuno di essi con le relative interazioni.
La componente processuale interagisce con le altre componenti del framework organizzativo – così come descritto nella Figura 2(3) – e ne costituisce, per certi versi, l’anello di congiunzione.
Vediamo, in primo luogo, il collegamento con la missione.
Da un lato, con la missione, e le conseguenti linee strategiche, vengono individuati degli obiettivi da perseguire. Dall’altro lato, con i processi si producono degli input che, a loro volta, influenzano gli outcome.
L’outcome costituisce l’impatto di un processo – e specificatamente del suo output – su un obiettivo (e cioè il tasso di realizzazione di quell’obiettivo).
Quanto più correlato risulterà l’output con l’outcome (cioè l’impatto sul fenomeno), tanto più il processo sarà pertinente all’obiettivo.
Facciamo un esempio. Poniamo il caso che in un Comune:
- attraverso il piano della performance, tra gli obiettivi venga scelto quello di rendere più sicura la circolazione stradale urbana;
- sia individuato come indicatore di impatto (e cioè di outcome) il numero di incidenti stradali;
- sia definito, per conseguire l’obiettivo “sicurezza circolazione stradale urbana”, un processo che generi come output “il numero di servizi esterni della polizia municipale”;
- venga constatato, al termine del periodo di riferimento, che vi sia stato effettivamente un aumento dei servizi esterni della polizia municipale a fronte del quale, però, si sia registrato un aumento, anziché una riduzione, degli incidenti.
Da ciò deve rilevarsi che il processo adottato non risulta idoneo a conseguire l’obiettivo prefissato (la sicurezza stradale urbana) in quanto non sono stati presi in considerazione altri elementi pertinenti (manutenzione delle strade, luminosità notturna, idoneità della segnaletica stradale, ecc.): in sostanza tra gli output processuali e l’outcome – e quindi tra la missione (tradotta in obiettivi) ed i processi ad essa collegati – non risulta esserci un’adeguata correlazione.
Lo schema concettuale, riportato nella Figura 5, formalizza l’esempio riportato, evidenziando anche la presenza delle entità che gestiscono i processi, attraverso il piano delle attività, la cui configurazione, a seconda del tipo di modello organizzativo adottato, si pone su un continuum ai cui estremi sono collocate le strutture funzionali ed i process owner.
Figura 5 – La correlazione tra obiettivi e processi
Il secondo collegamento – quello tra i processi e la struttura organizzativa – è invece riconducibile alle regole di attribuzione dei perimetri di competenza dei vari soggetti, con cui si dovrebbero anche individuare (ma è raro che accada!) i responsabili dei processi.
L’individuazione del process owner, infatti, risulta indispensabile per risolvere uno dei problemi principali degli assetti organizzativi in quanto, nelle organizzazioni “per funzioni”, ogni responsabile di struttura, spesso, ha solo una visione parziale del processo e, cioè, la “quota parte” di sua competenza e, conseguentemente, si concentra solamente sul quel “pezzo”, in genere senza coordinarsi con i suoi omologhi e, nel caso in cui l’output sia inadeguato, si preoccupa solo di dare evidenza del fatto che “quello che gli competeva, l’aveva fatto correttamente” e che se il risultato è negativo “la colpa non è sua”.
Deve anche sottolinearsi il fatto che il process owner, anche quando viene individuato, spesso non ha un vero e proprio potere in quanto la gerarchia funzionale generalmente prevale.
Collegare il modello di produzione (e cioè la mappa dei processi) ad un’adeguata struttura organizzativa è quindi molto difficile in quanto richiede l’individuazione di un delicato punto di equilibrio tra due concezioni sostanzialmente antitetiche – il consolidato modello funzionale e quello per processi – che talvolta viene affrontato con la soluzione mediana del modello a matrice, che però non sempre è in grado di risolvere l’ambiguità di fondo che lo caratterizza e che, in ogni caso, richiede notevole dispendio di energie per le attività di coordinamento.
Ricapitoliamo. Il processo è normalmente suddiviso in fasi, ciascuna delle quali comprende, di massima, attività omogenee.
Spesso la responsabilità di ciascuna fase, a seconda della specializzazione richiesta, è ricondotta ad una specifica struttura funzionale (amministrazione, logistica, ecc.), con il risultato che il personale che opera in una determinata fase processuale “lavora” per la struttura funzionale di riferimento in cui è inserita e non per l’output dell’intero processo.
Questa situazione determina uno scollegamento tra le varie fasi del processo per cui può accadere che accanto a fasi processuali di eccellenza vi siano fasi carenti oppure che si verifichino tempi morti (i cosiddetti colli di bottiglia) con la conseguenza che il risultato complessivo del processo, l’output, sia inadeguato ma non ci sia chi ne risponde o, addirittura, sia premiato il responsabile di fasi virtuose nell’ambito di processi scadenti, scollegando il destino delle fasi da quello del risultato finale per conseguire il quale le fasi stesse sono state progettate!
Compito dell’assetto organizzativo, quindi, è quello di associare il “modo di lavorare” – e cioè i processi – alle responsabilità gestionali, attraverso regole organizzative (di attribuzione e di funzionamento) in grado di affrontare i problemi descritti: da queste regole, poi, discenderanno i modelli da adottare (lean organization, modelli adhocratici, ecc.).
Nella realtà, tutto ciò di cui abbiamo parlato in relazione ai processi, spesso è pura teoria e, cioè, le problematiche evidenziate non sono affrontate concretamente. I motivi sono diversi ma possono ricondursi almeno a tre ordini principali di ragioni:
- il permanere – per carenza professionale e culturale – del modello funzionale quale standard privilegiato dalle organizzazioni, che come abbiamo visto mal si adatta alla logica per processi;
- un’inadeguata visione, specie nelle amministrazioni pubbliche, che non riesce a focalizzarsi sulle performance e su criteri effettivi di efficienza ed efficacia;
- la resistenza al cambiamento dovuta al fatto che la mappatura dei processi – ed il suo costante aggiornamento – va ad incidere su equilibri consolidati in quanto determina vere e proprie riprogettazioni che coinvolgono tutte le componenti dell’organizzazione.
Nei casi in cui, invece, si proceda ad una rivisitazione in chiave processuale dell’organizzazione, le esperienze pongono in evidenza il rischio di commettere errori tra i più frequenti dei quali ricordiamo quelli di:
- considerare la mappatura come un mero adempimento formale;
- realizzare mappature dei processi per motivi contingenti e difficilmente riutilizzabili;
- duplicare la mappatura dei processi nel senso che diverse funzioni aziendali, ciascuna per proprio conto, procedono autonomamente a compiere una propria mappatura;
- modellizzare i processi in maniera approssimativa, talvolta addirittura trascurando le convenzioni di rappresentazione, e con livelli di dettaglio inadeguati (o troppo ampi e cioè con viste che non consentono di cogliere alcun aspetto distintivo oppure troppo particolareggiati impedendo una visione sistemica dell’organizzazione);
- non utilizzare un adeguato set d’indicatori idoneo ad analizzare l’andamento del processo in termini di costi, tempi e qualità; in particolare gli indicatori devono essere in grado di far emergere, dalla grande mole di dati relativi alle attività dell’organizzazione, le eventuali criticità verificatesi nello svolgimento di tutte le fasi dei processi: colli di bottiglia, ridondanze e così via.
Un’ulteriore criticità, propria delle pubbliche amministrazioni, è quella di confondere processi, procedure e procedimenti amministrativi.
Con lo schema riportato nella Figura 6 si evidenziano i rapporti tra questi concetti, nel senso che:
- un processo, come abbiamo visto, è costituito da una serie di attività aggregate – originate da un input – con lo scopo di realizzare un output;
- la procedura, invece, è un insieme di istruzioni da seguire per lo svolgimento di una serie di attività di un processo, in genere comprese in una fase;
- il procedimento amministrativo, in questo contesto, può essere considerato come una sequenza di atti ed operazioni caratterizzati dallo scopo comune e unitario di emanare un provvedimento amministrativo; è una sorta di procedura eteronoma e cogente che stabilisce la modalità che le pubbliche amministrazioni devono seguire quando svolgono determinate attività del processo stesso, a garanzia della corretta formazione della volontà e del rispetto dei principi – sanciti dall’art. 97 della Costituzione – di legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione stessa(5).
Figura 6 – Processi, procedure e procedimenti amministrativi
LE ORGANIZZAZIONI ED IL CONTESTO
È mia convinzione che anche gli studi sulle organizzazioni – come accade per maggior parte delle attività di analisi – partano da una prospettiva soggettiva, in genere piuttosto complessa, in cui gioca un ruolo determinante il punto di equilibrio che si viene a creare tra gli elementi di natura “tecnica” e quelli “culturali”.
Personalmente, quando ho iniziato ad occuparmi di queste tematiche – diversi decenni fa – ero molto concentrato sui primi: l’obiettivo era quello di individuare “modelli organizzativi efficienti” al fine di realizzare… “modelli organizzativi efficienti”!
In altri termini ero assorbito dalla performance della “macchina” e non dal contesto in cui avrebbe operato, già da allora bipartito, con un’enfasi tanto ostentata quanto poco riscontrata nei fatti, in “interno” ed “esterno”.
In quel periodo – siamo agli anni 80 del secolo scorso – entrò prepotentemente in scena il termine “stakeholder” che, a mio avviso, costituisce il vero elemento chiave per legare le organizzazioni con le realtà sociali, economiche ed ambientali in cui agiscono.
Probabilmente il passare degli anni, ed il portato di esperienza che da essi discende – insieme alla diffusione di diversi approcci più attenti alle nuove esigenze che sono man mano emerse – hanno provocato una graduale, ma continua, inversione delle priorità per farmi arrivare, oggi, ad impostare le mie riflessioni, riferite alle organizzazioni, sulla base di parametri di “contesto”.
In termini più concreti, intendo affermare che, nel procedere con lo studio delle strutture organizzative, la prima riflessione debba essere rivolta al seguente tema: come le organizzazioni pubbliche e private – con le loro performance – influenzano in misura determinante le nostre vite.
Si tratta di un tema che, per la sua complessità, non ha potuto trovare un adeguato approfondimento in questo articolo ma, è bene sottolinearlo, deve comunque assolvere ad una fondamentale funzione: quella di validare le considerazioni “ingegneristiche” alla luce delle esigenze sociali ed umane che si intendono soddisfare!
Per quanto riguarda il settore pubblico, desidero soffermarmi, prima di concludere, su una questione di straordinaria rilevanza: il principio della separazione degli ambiti di competenza, fissati dall’art. 4 del d. lgs. 165/2001(6) che attribuisce al potere politico “le funzioni di indirizzo politico–amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi da attuare [… e la verifica della] rispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti” e alla dirigenza la responsabilità “in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.
Questa netta cesura, tra indirizzo e controllo da un lato, e attuazione e gestione dall’altro, a mio avviso non ha affatto funzionato nelle organizzazioni pubbliche, come ormai sembra rendersi sempre più conto la politica stessa(7).
Purtroppo questo limite riferito all’ambito dell’ingegneria istituzionale, è aggravato dalla mancanza di un adeguato livello di professionalità.
A parte i politici, che raramente hanno dimestichezza con pratiche gestionali, è proprio il management pubblico che, spesso, non risulta in grado di esercitare adeguatamente i compiti che gli sono devoluti: il suo atteggiamento è spesso conservatore e difensivo; la sua attenzione non è quasi mai rivolta a quella che dovrebbe costituire la sua prima preoccupazione, ossia il disegno e l’implementazione dei processi gestionali e produttivi; il suo livello di competenza spesso lascia a desiderare; l’orientamento al servizio, al di là delle affermazioni di principio, è generalmente estraneo alla sua visione (il tempo, per esempio, non è quasi mai considerato un KPI…); la sua propensione al cambiamento è quasi inesistente ed è normalmente interpretata come necessità di adeguarsi ai precetti normativi che vengono continuamente introdotti.
Se è vero che il potere effettivo è quello dell’attuazione, dobbiamo constatare che il management pubblico – e cioè l’elemento deputato all’attuazione – in linea tendenziale, non risulta in grado di esercitarlo sempre in maniera soddisfacente…
Non posso, anche se vorrei, concludere con una ricetta miracolosa ma di un’idea sono convinto: la soluzione dell’adeguatezza delle amministrazioni pubbliche al soddisfacimento dei bisogni della collettività e, più in particolare dei target di riferimento, non può che passare da adeguati, coerenti e sinergici approcci culturali e professionali.
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LEGGI QUI l’articolo precedente 1/2, Costruire l’organizzazione
Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti:
(3) Cfr. G. Nucci (2022), “Costruire l’organizzazione“; www.riskcompliance.it
(4) Cfr. Emilio Bartezzaghi, L’organizzazione dell’impresa. Processi, progetti, conoscenza, persone, Rizzoli Etas, 2010, pag. 60.
(5) Si rammentano anche altri principi richiamati dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 – la cosiddetta legge sul procedimento amministrativo – come, ad esempio, quelli di legalità, della trasparenza, di economicità, di efficienza, di efficacia, di pubblicità, di non aggravamento del procedimento. Particolare rilevanza hanno anche diversi obblighi posti a carico dell’Amministrazione quali quelli di concludere il procedimento con l’adozione di un provvedimento finale entro un termine temporale predeterminato, della chiarezza dell’iter formativo e delle motivazioni che hanno portato all’adozione del provvedimento, di individuare il responsabile del procedimento e di assicurare il diritto di accesso ai documenti amministrativi.
(6) Cfr. il d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165, “Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”.
(7) Ad esempio, cfr. Carlo Calenda, “I mostri”, Feltrinelli, 2020, pag. 73, in cui l’esponente politico afferma: “…. occorre che la politica comprenda che la gestione deve rappresentare l’80 per cento della sua azione”.