di Giovanni COSTA
La pandemia e la guerra russo-ucraina ci hanno fatto riscoprire il ruolo dello Stato nel governo dell’economia e la necessità di gestire le filiere produttive. Questo il messaggio principale del ministro Daniele Franco in visita a Padova dove all’inizio di aprile ha ricevuto il premio «Alumnus dell’anno» conferitogli dall’Associazione Alumni dell’Università di Padova.
Sul tema è intervenuto anche Luca Zaia in occasione dell’inaugurazione del Vinitaly parlando della filiera vitivinicola che comprende non solo vigneti e cantine ma anche il vetro, la carta, l’energia, la logistica e la stessa manodopera. Il presidente veneto ha auspicato, anche per altre filiere in fibrillazione, un rientro nei confini nazionali magari sotto una regia europea.
Aver sottoposto l’estensione delle filiere a soli criteri di efficienza si è rivelato negativo sia per gli Stati sia per le singole aziende.
È però un errore attribuire le colpe alla globalizzazione e disconoscerne i meriti, che consistono in un aumento della ricchezza globale anche se non sempre equamente distribuita. Le vere colpe vanno ricercate in un eccesso di specializzazione territoriale, settoriale e tecnologica. La gestione del rischio insito nel modello di business non è una preoccupazione diffusa nelle nostre imprese industriali e ancor meno nelle nostre istituzioni pubbliche, che finora non hanno considerato la prevenzione di questi rischi un loro compito.
Alle banche i Regolatori hanno imposto di ponderare gli attivi con il rischio (Risk-Weighted Assets) per valutare il capitale di cui devono dotarsi per gestire il credito. Le aziende industriali dovrebbero fare qualcosa di analogo e ponderare il portafoglio clienti con il rischio di concentrazione, misurato dalla quota di fatturato dipendente da uno o pochi clienti.
Ciò servirebbe a valutare il grado di ridondanza e di elasticità da introdurre nel loro business e nelle filiere che lo sorreggono, così da essere in grado di dare una risposta adeguata agli choc esterni. Stessa operazione per il portafoglio fornitori. Il che significa, per esempio, tenere attivi più canali di approvvigionamento dislocati in aree geopolitiche diverse e «complementari». Aumentano i costi ma aumenta anche la sicurezza.
La dipendenza dal gas russo, dai microchip cinesi, dai grandi player della logistica e via elencando è alla base delle strozzature che le nostre imprese e il sistema Italia si trovano oggi ad affrontare senza disporre di strumenti adeguati. E anche questo ha i suoi costi.
La gestione della filiera è una componente importante della strategia d’impresa e non un accessorio. Possono aspirare a gestire una filiera solo imprese:
- oltre una certa dimensione (ma risparmiamoci la solita litania sul piccolo che non è più bello)
- dotate di una visione in grado di assegnare i ruoli lungo tutto il processo.
Si tratta di attivare un equilibrio pluralistico nei mercati di sbocco e di approvvigionamento rifuggendo le monoculture. Ma non basta, serve anche un supporto pubblico che non deve certo interferire con le specifiche decisioni d’impresa ma proporre strutture e linee guida coerenti. Per le quali servono competenze di cui i nostri apparati pubblici non sembrano più dotati. Lo sono stati in passato. Per il futuro speriamo nel Pnrr e nella capacità del Governo di sintonizzare quanto meno politica industriale e politica estera. Visto che l’autarchia non è una soluzione.
Pubblichiamo questo articolo per gentile concessione dell’Autore. Fonte, CORRIERE DEL VENETO/CORRIERE DELLA SERA del 13-APR-2022
Intervento di Giovanni COSTA, Professore Emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova. Ha svolto attività di consulenza direzionale e ricoperto ruoli di governance in gruppi industriali e bancari. (www.giovannicosta.it)