Negli ultimi mesi sono stati pubblicati numerosi studi che con dovizia di dati illustrano l’ormai evidente crisi che sta attraversando il mercato automobilistico mondiale.
Questi dati però ci consegnano un’immagine postuma di un cadavere ormai freddo ma normalmente non si addentrano nella disamina delle cause che hanno determinato questa involuzione del settore.
È importante quindi analizzare le dinamiche sottostanti ai dati per capire che cosa è successo, perché si è arrivati a questo punto e soprattutto ipotizzare come rilanciare nel prossimo futuro un fenomeno industriale che è stato tanto importante nel passato e può continuare ad esserlo ancora a condizione che sappia rinnovarsi, riconoscendo e correggendo gli sbagli commessi.
Il grande Sviluppo Iniziale
L’era dell’automobile inizia nel 1870, con la seconda rivoluzione industriale, quando l’introduzione dell’elettricità nelle fabbriche rende possibile realizzare linee di produzione di massa: la famosa catena di montaggio, teorizzata da Frederick Winslow Taylor e messa in pratica da Henry Ford a partire dal 1913. Da quel momento in avanti l’industria automobilistica imbocca un percorso di sviluppo inarrestabile contraddistinto da una costante crescita di volumi e da una continua innovazione tecnologica.
Soprattutto dal 1950 in poi, grazie al boom economico del dopoguerra, il settore automobilistico gode di una grande popolarità e diventa il fiore all’occhiello di tanti sistemi produttivi nazionali, in Europa come negli Stati Uniti e in Asia. Un sistema trainante che crea indotto, occupazione e benessere. Sono gli anni in cui:
- il tenore di vita sale,
- i costi di produzione si riducono e,
- questo consente finalmente di vedere l’auto come un bene alla portata di tutti.
All’inizio ogni famiglia ha potuto progressivamente permettersi di acquistare una prima auto, poi però ci siamo lasciati prendere un po’ la mano e oggi ci ritroviamo con un parco circolante immenso perché in una famiglia di tre persone spesso ci sono tre automobili (e magari anche un camper e una moto). Certo, questo risponde a una necessità di mobilità individuale, a una comodità alla quale non sappiamo più rinunciare, ma non è stato un bene, né per l’ambiente, né per l’industria automobilistica.
Non lo è stato per due ragioni fondamentali:
- quando tutti hanno acquistato un’automobile le altre prodotte chi le compra?
- E, ammesso che ci sia una fisiologica sostituzione dei veicoli per obsolescenza, ma se il benessere economico diminuisce, come sta succedendo negli ultimi 10 anni, forse le persone cercheranno di far durare un po’ di più il modello che posseggono prima di cambiarlo o magari finalmente si renderanno conto di poterne fare a meno.
Una serie di Errori Importanti
Ma non sono solo questi gli errori commessi dalle case costruttrici, ce ne sono di peggiori.
- Primo errore: i volumi di produzione sono stati spinti oltre ogni ragionevole limite, dando per scontato che il trend di acquisto proseguisse in eterno e, quando ci si è resi conto che non era così, si è fatto riscorso agli incentivi pubblici per sostenere le vendite, mascherando le reali capacità di assorbimento del mercato.
- Secondo errore: le dimensioni delle auto prodotte sono costantemente cresciute, dalla prime utilitarie siamo arrivati ai SUV moderni che vengono acquistati più per status symbol che per vera necessità. Per un certo periodo di tempo questo ha significato anche motori sempre più potenti ed inquinanti, prima che entrassero in vigore normative più stringenti. Ma automobile più grande e potente significa anche più costosa e questo si scontra con la riduzione del potere di acquisto delle persone.
- Terzo errore: la globalizzazione. Quando le case automobilistiche hanno avvertito le prime avvisaglie di contrazione del mercato hanno risposto con operazioni di delocalizzazione, riduzione dei costi ed economie di scala mediante accorpamenti. Ma se l’obiettivo è quello di mantenere gli stessi prezzi di vendita e volumi di produzione riducendo fabbriche, operai, componentistica e fornitori, allora si aumenta il margine sulla vendita ma non si favorisce l’incremento della domanda.
- Quarto errore: per effetto degli accorpamenti, da tanti medi produttori nazionali si è passati in pochi anni a uno scenario di pochi mega-gruppi multinazionali che per ragioni di marketing continuano però a mantenere vive decine di marchi storici, sempre con assortimento di modelli e numeri di produzione. Nessuno ha avuto il buon senso (e magari anche un po’ di coraggio) a lanciare una politica di pochi marchi, pochi modelli, segmentati per tipologia di mercato target.
- Quinto errore: la transizione verso nuove tipologie di motorizzazione è stata gestita malissimo, con poche eccezioni. C’è chi ha cercato di tenere duro fino all’ultimo restando ancorato sui motori endotermici, c’è chi si è lanciato senza remore sull’elettrificazione totale della gamma. Sono entrambe posizioni che comportano dei grandi rischi fondamentalmente legati al ruolo delle istituzioni pubbliche che definiscono le normative di settore e realizzano le infrastrutture di servizio.
La scelta più equilibrata l’ha fatta chi ha scommesso sull’ibrido, in attesa di vedere le evoluzioni sia tecnologiche che normative e infrastrutturali, e sembra che il mercato abbia dato ragione a questo orientamento. Intanto però il panorama frammentato dell’industria automobilista tradizionale ha aperto uno spazio in cui si è infilata la Cina con una strategia di competitività basata su prezzi aggressivi e buona qualità che sembra sia arginabile solo con l’imposizione di dazi.
Poi certamente ci sono state anche altre cause strutturali che hanno influito sull’andamento del mercato indipendentemente dalla volontà dei costruttori: l’elevato costo del lavoro dei paesi industrializzati rispetto alle economie emergenti, gli eventi eccezionali che hanno determinato una significativa perdita del potere di acquisto dei consumatori e hanno sottratto linfa vitale alle aziende: la pandemia COVID, le guerre e la conseguente crisi energetica.
Le nuove Dinamiche Sociali
Infine bisogna prendere in seria considerazione anche il modificarsi di certe dinamiche sociali che influiscono direttamente sull’uso dell’automobile. Il progressivo smantellamento dell’industria automobilistica ha determinato una perdita di posti di lavoro elevatissima, che purtroppo non è ancora terminata: la già citata riduzione del potere di acquisto dei consumatori viene ulteriormente aggravata dall’assenza di alternative occupazionali, soprattutto per lavoratori poco qualificati e al di sopra di una certa soglia di età.
Parallelamente, le giovani generazioni dimostrano una certa disaffezione verso l’automobile, sia per via di una coscienza ecologista e di attenzione alla sostenibilità che si è maggiormente diffusa negli ultimi anni, sia perché attratti da beni di consumo diversi ritenuti più in linea con i tempi e le necessità: uno smartphone di ultima generazione costa sicuramente meno di un’automobile, quindi è più facilmente accessibile magari con qualche modesto sforzo di risparmio, ma soprattutto consente di soddisfare una serie di bisogni comunicativi, di socializzazione, di organizzazione personale sicuramente più utili del fatto di spostarsi da un punto all’altro di una città.
Gli Scenari Futuri
Che l’industria automobilistica possa essere considerata alla fine della sua era ormai dovrebbe essere un fatto acclarato, a meno di voler negare una realtà sicuramente preoccupante e scomoda ma proprio per questo necessaria da affrontare. Ora gli sforzi dovrebbero concentrarsi non tanto sul come prolungare l’agonia ma su come far rinascere dalle sue ceneri qualcosa di nuovo e di diverso. Gli assi su cui giocare questa importante partita sono due: la riduzione e la riconversione.
- In termini di riduzione, bisogna produrre solo quanto il mercato è in grado di recepire, quindi le case costruttrici devono snellire i marchi, la gamma, gli stabilimenti, i volumi di produzione, la rete di vendita e soprattutto i costi. Questo significa accettare di diventare più piccoli e magari riacquistare una dimensione più nazionale-artigianale, rivalutando originalità dello stile e qualità costruttiva in abbinamento all’innovazione tecnologica.
- In termini di riconversione è necessario immaginare quale sarà la mobilità del futuro, dove il concetto di “ibridazione” riguarda non solo la ricerca sulle diverse opzioni propulsive (fossile, elettrico, idrogeno etc…) ma anche quella sulle diverse opzioni di spostamento (via terra, via aria, via mare), sia sul breve raggio che sul medio-lungo e addirittura in ambito spaziale. Sono tanti i settori affini dove il patrimonio di esperienza accumulata in oltre un secolo dall’industria automobilistica può trovare nuova proficua applicazione.
E solo questo sarebbe già sufficiente a favorire la partenza di una nuova era di sviluppo e benessere per tutti: industria, lavoratori, consumatori. Poi è chiaro che anche gli Stati, la politica, l’amministrazione pubblica devono svolgere il proprio ruolo di supporto:
- elaborando strategie di sostegno,
- semplificando la normazione,
- riducendo la pressione fiscale,
- realizzando infrastrutture utili e funzionali,
- investendo sulla qualificazione delle persone, potenziando le reti di trasporto pubblico.
Solo così potremo veramente assistere all’alba della nuova era post-taylorista.
Questo articolo è pubblicato nella Serie “Osservatorio della Domenica“.
Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti:
La crisi del settore automobilistico, RaiPlay, 2024
M. Gabanelli e F. Tortora, La crisi dell’auto elettrica: perché le vendite crollano, DataRoom, Corriere della Sera, 2024
M. Gabanelli e R. Querzè, Industria dell’auto: in Italia a rischio 50 mila posti di lavoro. E non è tutta colpa dei cinesi, DataRoom, Corriere della Sera, 2024
Italia a quattro ruote, record europeo. Flop delle e-car: sono appena lo 0,6%, Lo Spiffero, 2024
Torino capitale italiana della cassa integrazione, Lo Spiffero, 2024