Se possedete delle criptovalute, chiedetevi perché le avete comprate; se aveste intenzione di comprarle, allora domandatevi perché vorreste farlo. Provate eventualmente a fare le stesse domande a dei vostri conoscenti che si trovino in una delle due situazioni e noterete che la risposta sarà presumibilmente uguale alla vostra e sempre la stessa: “Perché, sull’onda dei bitcoin, si nutre la speranza che in un futuro il valore di acquisto possa moltiplicarsi all’inverosimile e trasformare un investimento irrisorio in un consistente capitale”. E, qualora non ci credeste più di tanto, l’effetto FOMO (acronimo di Fear Of Missing Out), ossia il timore di non cogliere un’opportunità e, quindi, essere tagliato fuori dall’approfittare di un’occasione estremamente favorevole, vi spinge a seguire l’esempio di una massa di persone che compie un’azione. Comunque, è fuori dubbio che chiunque abbia avuto la fortuna, l’intuito o magari l’incoscienza di comprare anche solo cento euro di bitcoin nei primi due anni di vita della valuta, oggi quell’investitore è una persona che si ritrova ad avere guadagnato almeno un milione di euro esentasse.
In Italia, a parte i PIR, tutti i redditi derivanti da investimenti in titoli sono soggetti a tassazione, però, chi possiede, per esempio, dei bitcoin acquistati nel 2010 quando la valuta digitale valeva suppergiù un euro (mentre oggi vale circa seimila volte il valore di otto anni fa), non paga un centesimo di tasse.
Peraltro, un cristallino contribuente che avesse realizzato delle plusvalenze con la negoziazione di criptovalute, avrebbe non poche difficoltà a riportarle nella dichiarazione dei redditi proprio perché non esistono norme precise che regolamentino la materia. E un miner? Pagherebbe le tasse come imprenditore o come speculatore?
Le plusvalenze da criptomonete sono esentasse anche perché non sono regolamentate e non sono regolamentate perché non si sa come classificarle. E, in effetti, cosa sono le criptomonete? Per essere un mezzo di pagamento sono scarsamente usate e di non facile utilizzo; come titoli d’investimento, non si basano su nessun bene sottostante e se fossero un bene rifugio, una volta fuori dalla crisi si dovrebbero sgonfiare come una bolla. Sarà, allora, perché non se conosce bene la natura che non si riesce a regolamentare le criptovalute? Oppure queste ultime riflettono una “situazione di anomia”?
Per Durkheim, così come riportato nell’enciclopedia Treccani, “una situazione di anomia è del tutto abnorme, potendosi produrre solo in periodi di grave crisi, ovvero di boom economico («crises heureuses»), durante i quali la rapidità del mutamento sociale non consente alle norme societarie di tenere il passo con le molteplici sollecitazioni e istanze emergenti nel sistema sociale, che lascia così senza direzione normativa i propri componenti o buona parte di essi”. Gli elementi ci sono tutti: i bitcoin sono nati durante la grave crisi scatenata dai subprime e la disruptive innovation corre immensamente più veloce di ogni regolamentazione di governo.
In Italia, la normativa che dovrebbe disciplinare le criptovalute è completamente assente e l’unico tentativo di regolamentazione riguarda una proposta di legge presentata nel 2016, insieme ad altri tredici suoi colleghi, dal deputato Stefano Quintarelli. La proposta era finalizzata, tramite l’introduzione di un “anonimato protetto”, unicamente a evitare l’utilizzo delle criptovalute per le attività di riciclaggio e, tra l’altro, si riduceva a poche righe di testo contenenti gli elementi necessari per avviare l’iter legislativo. L’anno dopo, il decreto legislativo del 28 maggio 2017, entrato in vigore il successivo 4 luglio, sempre con l’intento di aumentare la trasparenza nelle operazioni di trasferimento in valuta digitale e così fornire ai competenti organismi strumenti più efficaci per combattere il riciclaggio di denaro e il finanziamento del terrorismo, ha previsto che l’attività di “cambiavalute virtuali” sia regolamentata da una licenza e preveda l’iscrizione in un apposito registro.
La Bce si è limitata a dichiarare, tramite il suo Governatore, che non compete alla Banca Centrale la regolamentazione in materia di criptovalute. Nel contempo, però, la stessa Bce non ha consentito all’Estonia di lanciare la prima valuta digitale di stato e ha messo in guardia i risparmiatori dai rischi derivanti dagli investimenti in ICO. Va detto, comunque, che le autorità monetarie della UE in più occasioni si sono anche espresse favorevolmente, elencandone le potenzialità nei diversi settori e incoraggiandone perfino l’utilizzo, in merito alla tecnologia che ha permesso la nascita delle criptovalute (la blockchain).
Russia e USA mostrano opposti comportamenti. La prima sembra aver assunto un atteggiamento di totale chiusura verso qualsiasi utilizzo delle criptovalute come mezzo di pagamento; gli Usa, invece, si mostrano più flessibili e, quantunque caute e timorose, le autorità monetarie americane non ostacolano i pagamenti in bitcoin e incoraggiano l’uso della blockchain non solo nel settore finanziario.
Nei paesi asiatici, le criptovalute incassano il consenso del Giappone che ne ha legalizzato l’utilizzo nei pagamenti, mentre incontrano la chiusura più o meno totale di Cina e Corea che, vietando alle banche di scambiare valute digitali, ne tollerano la sola circolazione tra privati.
Nel Centro America il presidente Maduro, con il recente lancio della valuta Petro (una criptomoneta centralizzata, fiduciaria e sostenuta dalle ingenti riserve minerarie e petrolifere del Paese), spera addirittura di risollevare le sorti della disastrata economia venezuelana.
Posizioni difformi adottate dalle varie nazioni, unitamente a una regolamentazione quanto mai frammentaria ed eterogenea, consentono agli hater delle criptovalute di considerare bitcoin e altcoin unicamente strumenti per riciclare denaro, per esportare legalmente valuta all’estero e per aggirare le sanzioni imposte ad alcuni stati. Più concretamente, però, l’universo delle criptovalute è attualmente un possesso di valore che può essere utilizzato quasi senza vincolo alcuno. Un po’ come la rete internet d’altronde che, pur rappresentando uno straordinario strumento di comunicazione e di arricchimento culturale, si presta, purtroppo, per essere usata anche per scopi illeciti e criminosi.
Cinzia Replica
In Italia l’Agenzia delle Entrate considera le criptovalute alla stregua di valute estere, da dichiarare nella dichiarazione dei redditi nel quadro RW e le cui plusvalenze vanno tassate al 26%. https://quifinanza.it/fisco-tasse/fisco-il-debutto-di-bitcoin-e-monete-virtuali-nella-dichiarazione-dei-redditi/187209/
Ingrid Replica
Grazie Cinzia, molto interessante. In effetti in Europa non c’è ancora una posizione univoca. La materia è in continua evoluzione sia per la tassazione sia per l’antiriciclaggio.
Per curiosità. In Olanda in base alle ultime indicazioni del Fisco, le criptovalute sono considerate alla stregua del patrimonio personale (i.e. criptovalute, risparmi, azioni, oro e le altre valute). Per cui le criptovalute acquistate nel 2016 o in data antecedente sono da inserire in dichiarazione dei redditi al valore corrente del 1 gennaio 2017 indipendentemente dal fatto che all’acquisto avessero un valore più alto o più basso. La tassazione è pari allo 0.86% fino a Euro 75K di patrimonio personale con un’esenzione di Euro 25K per i singoli e 50K in caso di dichiarazione congiunta. I criptopossessori sono stimati in circa 580.000 persone per un investimento totale di circa Euro 900K.