La riforma delle banche di credito cooperativo

15 luglio 2017

di Vincenzo Giovanni DRAGONE

La legge 8 aprile 2016, n. 49, recante la riforma del credito cooperativo, ha introdotto nel Testo unico bancario (TUB) l’istituto del “gruppo bancario cooperativo”; il quadro normativo si è completato con la disciplina di attuazione emanata da Banca d’Italia con la Circolare n. 285 del 2013, 19° aggiornamento del 2 novembre 2016.

Il modello disegnato dal legislatore prevede un gruppo composto da un intermediario bancario quale capogruppo, costituito in S.p.A. e dotato di un patrimonio netto di almeno un miliardo di euro, e dalle banche di credito cooperativo (BCC) affiliate alla capogruppo attraverso un contratto, detto “di coesione”. La disciplina in parola apre alla possibilità di più gruppi, purché sia rispettato – tra l’altro – il requisito patrimoniale richiamato.

La Riforma incide su un sistema bancario, quello cooperativo, che ha visto la luce a fine ottocento muovendo dal pensiero di ispirazione cristiana di Friedrich Wilhelm Raiffeisen e che trova le proprie caratteristiche distintive nei principi di localismo (= operatività concentrata su un determinato territorio) e mutualità: queste banche, infatti, nascono con l’obiettivo di creare un canale di accesso al piccolo credito soprattutto a favore di popolazioni rurali (prevalentemente agricoltori e artigiani), anche quale risposta al fenomeno dell’usura.

Il sistema vede dunque quale valore fondativo quello di promuovere lo sviluppo sul territorio mediante la cooperazione e il reciproco aiuto senza scopo di lucro, attraverso una precipua struttura di governance che poggia sulla democrazia partecipativa (i.e. il voto capitario: una testa, un voto). La finalità mutualistica di cui si è fatto cenno distingue il modello cooperativo da quello degli ordinari istituti di credito: infatti, mentre le banche tradizionali misurano l’efficacia della propria azione (principalmente) attraverso la capacità di remunerazione dell’investimento dei soci, la finalità mutualistica, riconosciuta e promossa dall’art. 45 della Costituzione, consiste nel “fornire beni o servizi od occasioni di lavoro direttamente a membri della organizzazione a condizioni più vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato” (così la Relazione di accompagnamento all’emanazione del Codice civile del 1942).

Storicamente, le BCC hanno offerto ai soci prestiti e servizi a condizioni più vantaggiose rispetto a quelle praticate dalle banche tradizionali, in un mercato locale spesso non raggiunto dagli ordinari canali bancari. Ad oggi, la rete delle BCC conta 313 istituti e 4.295 sportelli, un complesso quindi molto articolato di banche prevalentemente di dimensioni contenute e connotate – come evidenziato – da una operatività locale.

Venendo ai tempi più recenti, si è assistito a un perdurante ciclo economico non favorevole, che ha accelerato il fenomeno già in atto di consolidamento bancario e di progressivo irrigidimento delle regole di vigilanza prudenziale, circostanze queste che hanno condotto alla Riforma in commento, le cui misure “convergono verso il comune obiettivo di rafforzare la stabilità del sistema bancario e la sua capacità di sostenere l’economia; esse consentono, da un lato il mantenimento dell’importante ruolo della cooperazione di credito, dall’altro lo smobilizzo di quote di attività deteriorate, che deprimono la capacità di reddito delle banche e pongono un vincolo all’utilizzo del capitale per l’erogazione di nuovi finanziamenti” (audizione presso la Camera dei Deputati di C. Barbagallo, Capo Vigilanza Bancaria e Finanziaria di Banca d’Italia).

Più in particolare, la Riforma è intervenuta sugli articoli da 33 a 36 del TUB, prevedendo che l’esercizio dell’attività bancaria in forma di BCC sia consentito unicamente a istituti facenti parte di un gruppo bancario cooperativo, con un numero minimo di soci innalzato (al fine di irrobustirne la patrimonializzazione) a 500, e con partecipazione massima detenibile da ciascun socio pari e € 100 mila. E’ previsto poi che la BCC esclusa da un gruppo cooperativo possa continuare l’attività bancaria solo a seguito di un’autorizzazione della Banca d’Italia e trasformazione in società per azioni.

La Riforma ha introdotto poi uno schema di governance di gruppo inedito, in virtù del quale – da un lato – la capogruppo controlla le BCC non su base partecipativa, ma in forza di un contratto di coesione, mentre – dall’altro – le BCC controllano la capogruppo su base azionaria.

Gli obiettivi di accrescimento della stabilità patrimoniale del gruppo sono perseguiti mediante la garanzia in solido delle obbligazioni assunte dalla capogruppo e dalle altre banche aderenti (art. 37-bis, c. 4, TUB); la forma di S.p.A. che deve assumere la holding è prevista anche al fine di consentire l’eventuale crescita esterna e/o integrazione con altri gruppi bancari cooperativi europei, oltre che per l’accesso al mercato dei capitali, sino a un massimo del 49% del capitale sociale.

L’intervento normativo persegue le suvviste istanze di maggiore stabilità del sistema anche attraverso la possibilità riconosciuta alla capogruppo, in caso di necessità, di rafforzare la dotazione patrimoniale delle BCC con la sottoscrizione delle azioni di finanziamento di cui all’art. 150-ter del TUB.

In tale contesto, la capogruppo è garante sia del rispetto dei requisiti prudenziali a livello consolidato che dell’ottemperanza alle normative applicabili al gruppo; ne deriva l’obbligo di declinare le prerogative di direzione e coordinamento assegnate dalla normativa mediante i più adeguati strumenti di pianificazione, controllo e intervento nel rispetto di un principio di proporzionalità che tenga conto dell’effettiva rischiosità delle aderenti. I poteri riconosciuti dalla normativa alla holding giungono sino all’esclusione delle BCC dal gruppo laddove siano riscontrate gravi violazioni agli obblighi contenuti nel contratto di coesione, alla possibilità di irrogare sanzioni e al diniego alla nomina di esponenti aziendali.

A tal riguardo, il legislatore, in coerenza con il contesto evolutivo che ha interessato i sistemi di credito cooperativo europei, orientati (eccezion fatta per Austria e Germania) verso un’integrazione verticale, delinea un sistema accentrato che preveda chiare e formalizzate linee di responsabilità e punti di controllo nei diversi snodi del network di BCC. Operativamente, l’esigenza di indirizzo unitario si dovrà declinare su complesso di autonomie (= BCC munite di propri organi sociali e proprie strutture organizzative) rese “sacrificabili” solo in caso di acclarate violazioni delle regole di coesione o di situazioni patologiche accertate. Dal che ne deriva l’esigenza di implementare strumenti di monitoraggio e di controllo appropriati, quali ad esempio i presidi di early waring systems e strumenti di controllo integrati.

Tali profili esprimono la portata della sfida in gioco, che si dibatte tra il conciliare la salvaguardia dei principi di un movimento, quello bancario cooperativo, unico e strategico nel tessuto economico italiano costituito prevalentemente da p.m.i., con le esigenze di rafforzamento patrimoniale, di aumento della competitività, di innovazione e sinergia sottese alla Riforma.

La partita è in tutt’ora corso: il termine ultimo per la presentazione delle istanze di costituzione del gruppo cooperativo è il 3 maggio 2018 (ma Banca d’Italia, con comunicazione del 4 gennaio 2017, ha auspicato che si proceda celermente, senza attendere detto termine), e vede al via almeno due gruppi candidati.

 

Intervento di Vincenzo Giovanni Dragone, Compliance Officer presso il Gruppo bancario Iccrea

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