di Gennaro Giancarlo TROISO
Per dare una dimensione – quanto meno numerica – del fenomeno lobbying, occorre considerare che a Washington, secondo i dati al 2018, operavano 11.641 soggetti, cosa che la caratterizzava come una delle capitali mondiali del lobbismo. Bruxelles, dove lavorano istituzioni le cui decisioni programmano e influenzano la vita di oltre 500 milioni di abitanti, secondo i dati al 2019, l’ha superata con i suoi 11.801 iscritti al “Registro per la Trasparenza”.
Per quanto riguarda il chi, e quali siano gli interessi rappresentati, non si deve pensare esclusivamente a industrie o aziende private, essendo in realtà il panorama più interessante e composito.
Gli 11.801 di Bruxelles, se suddivisi per categorie, risultavano essere, sempre in numeri:
- 5.996 industrie e imprese,
- 3.141 Ong e associazioni dei consumatori,
- 1.124 società di consulenza,
- 913 istituti accademici e di ricerca,
- 576 enti pubblici, e
- 51 organizzazioni religiose.
Se poi si scende nel dettaglio della categoria delle industrie e imprese, troviamo che delle 5.996 appena dette, 907 sono sindacati e associazioni professionali, 2.337 imprese e gruppi, 2.430 associazioni commerciali e di categoria, e 322 altre organizzazioni.
Fra i tanti, insomma, ci sono il Consiglio delle industrie chimiche europee, Google, Microsoft, Huaweii, la Confindustria europea, la Federazione europea delle industrie e associazioni farmaceutiche, e così via. Tanto per citare il nostro, fra i singoli Paesi, l’Italia è al quinto posto con 841 soggetti presenti, dopo Belgio (dove però si registrano molti gruppi non europei), Germania, Gran Bretagna e Francia.
La spesa delle lobby a Washington è stata nel 2018 di un equivalente di 3,1 miliardi di euro. La spesa a Bruxelles è stata, secondo i dati al 2017, di 1,5 miliardi di euro, impiegati per mantenere gli uffici e il personale, fare convegni e promuovere campagne d’opinione.
Non mi piace scrivere di numeri, ma in questo caso può essere utile per inquadrare l’aspetto fondamentale del tema, che riguarda, è vero, la trasparenza degli atti e dei comportamenti, ma soprattutto l’enorme rilevanza degli interessi economici sottoposti a legislazione.
Il dibattito in Europa inizia a prendere forma dalla seconda metà degli anni 90 (dal 95 il Parlamento cominciò a tenere un registro). Passa attraverso il “Libro Bianco sulla governance”, che risale al 2001 e il “Libro Verde sull’Iniziativa europea per la trasparenza” del 2006. Nel maggio 2008, il Parlamento Europeo decide di adottare la “relazione sullo sviluppo del quadro per le attività dei rappresentanti di interessi (lobbisti) presso le istituzioni europee”. Si concorda sulla definizione di lobbismo, data dalla Commissione, quale attività svolta “al fine di influenzare l’elaborazione delle politiche e il processo decisionale delle istituzioni europee”. Non è un discorso facile né un percorso agevole. Il sistema è sempre perfettibile; si dibatte di obbligatorietà piuttosto che di volontarietà del registro cui devono iscriversi i gruppi di pressione, di autoregolamentazione dei gruppi di interesse, di controlli, di apporti, di definizioni, di facilitazioni e di sanzioni. Si discute se il lobbying sia opacità o trasparenza; se debba intendersi attività necessaria o influenza illegittima, fino ad affermare infine che l’attività di lobbying è “parte essenziale del procedimento parlamentare”.
I principali organismi europei, Parlamento e Commissione, forti della propria autonomia, agiscono tuttavia ognuno separatamente dall’altro, finché dal 2011 non addivengono a un registro congiunto chiamato (l’ho citato sopra) “Registro per la Trasparenza”, che prende il posto dei due registri separati tenuti dalle due istituzioni. L’altro importante organismo europeo, Il Consiglio, rimane fuori da questi processi, e solo dal 2014 partecipa come osservatore. Dal 2018 le tre istituzioni acconsentono a dialogare sulle regole che renderebbero più trasparenti le attività di chi si rivolge all’Unione Europea in rappresentanza di un interesse. L’obiettivo del Registro per la Trasparenza è quello di rendere pubblico e accessibile l’interesse rappresentato da coloro che interagiscono con le istituzioni dell’Unione.
L’iscrizione al registro è per il momento volontaria, ma permette alcuni tipi di accesso non altrimenti disponibili per chi non è registrato.
- Se si vuole, ad esempio, parlare a un’audizione pubblica organizzata da una Commissione parlamentare, è necessaria l’iscrizione.
- Si ricevono inoltre tempestive informazioni e avvisi riguardo i progetti e attività cui si è dichiarato di essere interessati.
Finisco di tediarvi con i numeri riportando alcune percentuali rilevate dall’OCSE, che già nel 2013 evidenziava in una sua indagine una certa differenza di vedute nelle istituzioni europee rispetto alle scelte normative da attuare per regolare i gruppi di interesse. Le riporto perché mi sembra possano dare un’idea sui tempi lunghi trascorsi – e probabilmente ancora necessari – a trovare un punto comune di regolamentazione. Uno degli aspetti maggiormente controversi risultò essere ad esempio quello relativo ai codici di condotta cui dovevano attenersi i soggetti coinvolti nelle attività di lobbying. Il 57% dei parlamentari e il 51% dei lobbisti intervistati si dissero favorevoli a che fossero strutture governative a disciplinare i lobbisti e vigilare sulla loro attività. Il 30% dei lobbisti confermò il proprio favore all’autoregolamentazione e nessun parlamentare espresse invece parere favorevole ma anzi, il 70% di questi, dichiarò addirittura di considerarla negativamente.
Al momento non c’è in Europa una regolamentazione univoca delle lobby, avendo gli Stati membri approcci diversi.
Solo sei paesi: Austria, Francia, Irlanda, Lituania, Polonia, Slovenia (e prima della Brexit anche il Regno Unito) hanno una legislazione in materia. Nei Paesi Bassi il registro è obbligatorio. In Germania, Croazia, Romania e Italia, il registro è volontario. In altri non c’è. Negli organismi e istituzioni dell’Unione Europea è presente (come negli USA) una normativa relativa alle “revolving doors”. Normativa questa che si applica a coloro che abbiano rivestito cariche elettive o che siano stati funzionari o dirigenti di uffici, direzioni, commissioni ecc., e che al termine del loro incarico (o dimissionari da esso) siano passati al servizio di aziende private o società di consulenza per svolgere attività di lobbying, con la particolarità di poter sfruttare:
- non solo le competenze e le conoscenze dell’ambiente e dei processi acquisiti lavorando all’interno,
- ma anche le relazioni personali maturate durante la permanenza in carica.
Una normativa analoga non è tuttavia presente a livello di singolo Paese europeo (prima della sua uscita dall’UE, lo era solo in Gran Bretagna).
Il panorama complessivo è quindi particolarmente composito e ancor più lo è se si esaminino gli obiettivi del sistema di regole, soprattutto ove si vogliano considerare i punti di vista statunitensi rispetto a quelli europei. Confesso di non essere così addentro alle specificità, soprattutto, di oltre Atlantico. Mi affido quindi, riportandolo, al punto di vista espresso a riguardo in un interessante e recente lavoro della “American Chamber of Commerce in Italy”. Secondo il documento in parola, negli USA regolamentare le lobby e le loro attività serve a garantire la trasparenza e ridurre la corruzione, favorendo al contempo la responsabilità dei decisori politici. Al modo di legiferare dell’Europa, viene invece attestata la più marcata volontà di facilitare l’interazione fra i gruppi rappresentati e i decisori, allo scopo principalmente di promuovere lo sviluppo economico (non necessariamente, in questo caso, per la trasparenza e la prevenzione della corruzione).
In situazioni complicate come questa appena dipinta, il nostro Paese è capace di “dare il meglio” – lo dico con ovvio sarcasmo – della propria particolare visione regolamentare. Senza mezzi termini, non ho difficoltà ad affermare che rispetto al panorama internazionale è difficile trovare altrettanta disomogeneità, foriera di riflettersi non certo positivamente su chi operi professionalmente nel settore. Per quanto riguarda il nostro Parlamento, esiste una regolamentazione dell’attività di lobbying solo presso la Camera dei Deputati, che ha adottato:
- un “Codice di Condotta dei deputati”, e
- una “Regolamentazione dell’attività di rappresentanza di interessi nelle sedi della Camera dei Deputati”,
stabilendo le modalità di accesso alle strutture, l’istituzione di un registro dei soggetti che svolgono professionalmente attività di relazione istituzionale nei confronti dei membri della Camera dei Deputati presso le sue sedi, l’obbligo di trasmettere con cadenza annuale una relazione che dia conto dei contatti posti in essere, degli obiettivi conseguiti e dei soggetti interessati, l’applicazione di sanzioni in caso di violazioni.
Non esiste corrispondente al Senato, dove dal 2016 è giacente un testo di progetto di legge proveniente dall’esame in Commissione Affari Costituzionali di alcune proposte di legge di iniziativa parlamentare e di due petizioni popolari in materia di attività di rappresentanza di interessi. Si tratta di un testo articolato, il cui iter non è tuttavia proseguito prima della fine della precedente legislatura. Pare quindi di essere di fronte a un’anatra zoppa, considerato il nostro bicameralismo perfetto!
Ma non è tutto. In pratica altri livelli istituzionali, ad esempio il Governo, o l’Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC), hanno emanato loro provvedimenti, indipendenti gli uni dagli altri. Esistono registri, differenti fra loro, presso alcuni ministeri: quello delle Politiche agricole alimentari e forestali (MIPAAF), del Lavoro, dell’Ambiente e della tutela del territorio (MATTM), delle Infrastrutture e dei trasporti (MIT), della Semplificazione, e, dulcis in fundo, dello Sviluppo Economico (MISE). Per quest’ultimo, sembrerebbe addirittura – come riportato da addetti ai lavori interpellati – che, in atto, i provvedimenti in esso adottati a riguardo in precedente legislatura, siano di fatto come non esistenti, in attesa forse di nuove regolamentazioni.
Non finisce tuttavia qui. Non dobbiamo infatti dimenticare il livello di regolamentazione regionale, proprio del nostro Paese. Lombardia, Toscana, Abruzzo, Molise, Puglia e Calabria, hanno adottato loro misure. La Sicilia, seppur abbia nel suo Statuto una indicazione relativa alla partecipazione delle rappresentanze professionali all’elaborazione dei progetti di legge, non ha ancora adottato alcuna disposizione di attuazione di quello che rimane, in questo modo, appena un principio sulla carta (anche la Sicilia può però vantare, come il Senato della Repubblica, un disegno di legge giacente in esame). Le uniche cose che accomunino questo panorama nostrano sono purtroppo la frammentarietà e l’asimmetria che contraddistinguono quello che neanche credo si possa chiamare sistema, ed è certo auspicabile che una normativa unitaria valida sul piano nazionale possa essere quanto prima adottata. Purtroppo il mio è solo uno fra i tanti auspici, sorretti peraltro più vivamente da proposte concrete da parte di soggetti partecipanti al settore, ma che per ora non hanno fatto breccia nel muro dell’inerzia politica o interessi contrari. Pertanto resto in cuor mio dubbioso, e volgo nuovamente il pensiero a una possibile normativa europea in materia, cui saremo costretti ad adeguarci, speriamo.
Pur in questo mare difficile, diversi soggetti operano comunque egregiamente a livello professionale nel nostro Paese. Ne ho visto i siti istituzionali, ho letto articoli, interviste. Con l’ausilio di una delle società che vi operano, che mi ha cortesemente offerto la possibilità di scambiare qualche dato e opinione al fine di dare uno sguardo sereno sul panorama che contraddistingue il lavoro cui immagino tutti gli addetti a questa particolare attività professano dedizione e attenzione piena, ho potuto scorrere alcuni bilanci, osservando come la grande maggioranza dei soggetti che professano la rappresentanza di interessi e relazioni istituzionali, abbiano le voci maggiori di spesa impiegate nel settore multimediale e nella comunicazione. Mi è stato spiegato che sarebbe opportuno considerare quale attività veramente portante della rappresentanza di interessi, oltre che lo spiegare e l’argomentare, la capacità tecnica di scrivere i provvedimenti, pur essendo questa attività ben più difficile.
In sostanza, l’attività di rappresentanza di interessi nel nostro Paese ritengo sia davvero complicata, e proprio per questo ritengo sia affare per soggetti davvero preparati, edotti, tenaci; capaci, proprio perché il contesto non è semplice e le difficoltà, si sa, aguzzano l’ingegno, di esprimere al meglio, con competenza, le potenzialità della propria attività, importante, lecita, di ausilio al legislatore ma, in buona sostanza, alla società civile.
È chiaro, è un mondo, questo, particolarmente vicino alla politica; un mondo nel quale i professionisti della rappresentanza di interessi devono mostrare, ed essere condotti nelle proprie azioni, da assoluta onestà e competenza, distinguendosi in questo dai “faccendieri” e “amici degli amici” che purtroppo abbondano negli ambienti deputati.
E a questo punto, parafrasando una nota letta in questi giorni in un articolo su una testata online, per tutti coloro che nei palazzi si occupano di politica e che gridano al vento “onestà-onestà”, non posso esimermi anch’io dal suggerire di leggere Benedetto Croce, quando ricorda che l’onestà in politica è innanzitutto competenza, proprio perché è vero che occorre formare ed educare a valori condivisi i cittadini tutti, ma penso sia quasi impossibile senza adeguata formazione, in primis, per la classe politica.
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Intervento del Dott. Gennaro Giancarlo TROISO, Consulente ed Esperto di compliance e AML in ambito finanza e intermediazione nonché Socio Fondatore di AICOM (Associazione Italiana Compliance)
LEGGI QUI l’articolo precedente 1/2, Lobbying, rappresentanza d’interessi e lungimiranza politica
Per approfondimenti e normative, consultare i seguenti link e/o riferimenti:
Codice di condotta dei deputati e regolamentazione dell’attività di lobbying – Camera dei Deputati
Registro per la trasparenza: più chiarezza su lobby e istituzioni UE – Parlamento Europeo
Focus : Lobbying Ue sotto i riflettori – Parlamento Europeo
Ue, 11.800 lobby per influenzare Commissione e parlamentari. I casi di corruzione – Milena Gabanelli, Corriere della Sera
La Regolamentazione dell’attività di lobbying in Italia, American Chamber of Commerce in Italy
Il lobbying nell’Unione europea: le misure sulla trasparenza, Maria Cristina Marchetti
Lobbying e relazioni istituzionali nell’esperienza giuridica comparata italiana ed europea, Bruno Brienza
Analisi in ambito di lobbying da parte del gruppo GAFA all’interno dell’Unione Europea, Edoardo Mollona e Leonardo Stupazzoni
Oltre i confni nazionali. L’impatto delle lobbies sull’Unione europea, Gianluca Sgueo
La regolamentazione del lobbying in Europa, Luana Maria Arena
Sandro Replica
Un problema delicato ma da affrontare sono i compensi.la percentuale dovuta a un facilitatore la ICC, per alcune attività la ha fissata in 2.5% a copertura di tutti le attività di facilitazione di tutti i facilitatori. I compensi generalmente sono concordati e distribuiti da un Paymaster. Spesso si usano contratti NCNDA e IMFPA. La parte più scoperta è quella relativa al calcolo e alla distribuzione dei compensi dal semplice segnalatore al Paymaster che definisce e gestisce i contratti.