di Giovanni COSTA
Il tema dei movimenti sul mercato del lavoro è da un po’ di tempo molto presente nel dibattito economico e politico in Usa e in Europa. In Italia, con un aumento delle dimissioni volontarie nei primi 9 mesi del 2021 di oltre il 30% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (fonte Prometeia-Legacoop), i movimenti hanno assunto le dimensioni di un grande esodo da posizioni di lavoro anche solide.
E le sostituzioni con persone adeguate incontrano difficoltà nonostante gli alti livelli di disoccupazione.
C’è chi minimizza spiegando che si tratta di una reazione al blocco provocato dalla pandemia. C’è chi consiglia di elevare le retribuzioni, offrire condizioni di crescita professionale, arricchire le misure di welfare aziendale soprattutto a sostegno delle incombenze familiari che ancora penalizzano le donne. Saggio consiglio, ma basterà? O bisognerà affrontare con più decisione il miglioramento dell’esperienza esistenziale nel suo complesso, senza limitarsi a forme di risarcimento per lavori poveri di significati o di lavori che semplicemente spariscono?
Anni di predicazioni sull’eclissi del posto fisso sembrano aver prodotto risultati. Si è ottenuto un allentamento del grado di dipendenza dal feticcio del posto fisso, relegato al ruolo di droga in grado di indurre comportamenti compulsivi sul mercato del lavoro. Che si aggiungono a comportamenti che, anche grazie a sistemi pensionistici tanto generosi quanto dissennati, favoriscono una vera e propria fuga dal lavoro.
Una fuga dal lavoro in età che i progressi della medicina e la diffusione di abitudini salutiste hanno dotato di pienezza di facoltà lavorative, fisiche e intellettuali.
Prima ancora del «posto fisso» è lo stesso concetto di «posto» che si è dissolto a causa delle attività svolte da remoto (smart working) e degli spazi lavorativi aperti o condivisi che ne hanno assorbito la componente fisica. E hanno spianato la strada a nuove forme di ubiquità, d’interazione, di nomadismo nel mondo del virtuale. Salvo riscoprire la materialità delle catene di fornitura, della logistica, dell’agro-alimentare il cui ruolo nella formazione del Pil esce ridimensionato assieme al contributo all’occupazione. La componente immateriale aumenta il suo apporto alla ricchezza di una nazione ma continua a trovare il suo presupposto nella base materiale.
Forse è in corso una mutazione antropologica di coloro che il linguaggio aziendale continua a chiamare «dipendenti» in aperto contrasto con le roboanti espressioni sulla centralità delle persone, della loro autonomia, del loro apporto creativo. In qualche dizionario si trova ancora il termine «inferiore» tra i sinonimi di «dipendente», cioè di colui che dipende da un «superiore». È un modo quanto meno rozzo di rappresentare la gerarchia.
In alternativa a «dipendenti», si parla spesso di «capitale umano». Trascurando che l’espressione «capitale umano» contiene un insanabile ossimoro, questa espressione ci ricorda che la ragioneria colloca il capitale tra le passività, nello Stato patrimoniale. Il che significa che il capitale umano resta di proprietà di chi lo ha conferito e si aspetta di vederselo remunerato, restituito integro e semmai accresciuto nel suo valore. Se si evita un uso retorico, il concetto di capitale umano suggerisce molte idee in tema di sicurezza, prevenzione degli infortuni, formazione e, soprattutto, di qualità complessiva dell’esperienza di lavoro. Dove qualità del lavoro e qualità della vita sono inscindibili e dipendono, oltre che dai beni materiali, dalla pluralità e dalla pregnanza delle relazioni interpersonali, dal grado di appagamento, dalla ricchezza e dalla varietà degli stimoli etici, estetici e professionali. In una parola, dal senso del lavoro.
Se non provvede l’impresa sarà il lavoratore a costruirselo con la mobilità avendo ormai capito che il posto «fisso» è solo, in una sorta di contrappasso, una «fissazione» di qualche imprenditore ossessionato dal controllo.
Pubblichiamo questo articolo per gentile concessione dell’Autore. Fonte, CORRIERE DEL VENETO del 6-MAR-2022
Intervento di Giovanni COSTA, Professore Emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova. Ha svolto attività di consulenza direzionale e ricoperto ruoli di governance in gruppi industriali e bancari. (www.giovannicosta.it)