di Giovanni COSTA
Di tanto in tanto nel dibattito economico vengono introdotte parole che diventano virali e vengono usate e abusate a ripetizione. Tra queste, resilienza e diversità.
La prima è diventata una specie di prezzemolo: tutti la vogliono, la cercano, la bramano. E soprattutto è una parola che troneggia nel Pnrr che sta appunto per «Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza». Che, com’è noto, è alle prese con qualche difficoltà a causa delle ridotte capacità di implementarne i contenuti.
E se queste difficoltà trovassero una spiegazione già nel nome con cui è stato battezzato?
Ho sempre diffidato del concetto di resilienza ripreso dalla fisica dei materiali e applicato alle scienze sociali. Diffidato al punto che a una rivista francese di management che qualche anno fa mi ha chiesto una riflessione su come aumentare il grado di resilienza delle nostre imprese ho risposto che il management dovrebbe smettere di usare parole magiche. Secondo la Treccani resilienza denota l’attitudine di una comunità o di un sistema a ritornare al loro stato iniziale dopo essere stati sottoposti ad azioni in grado di allontanarli da quello stato. Partendo da tale definizione vediamo perché questo nome non solo si sia rivelato un po’ iettatorio, ma anche a insinuazioni maliziose. Tutti ricordano il trionfalismo con cui fu avviato il Pnrr: una pioggia di miliardi, un programma di riforme di portata storica, un piano di investimenti in grado di smuovere alle fondamenta le strutture del Pil e della produttività.
Una cura choc che all’inizio sembrò avere scosso gli apparati politici e amministrativi. E qui entra in campo la resilienza cioè l’attitudine del sistema di ritornare alla stato iniziale: la resilienza da punto di arrivo a ostacolo alla partenza. Infatti gli entusiasmi iniziali hanno quasi subito lasciato il posto alle liti tra politici, alla cavillosità degli apparati a sfruttare poteri di veto. In sintesi, a ritornare allo stato iniziale. Probabilmente non si sarebbe evitato il rischio di stallo, ma se si fosse chiamato «Piano di ripresa e cambiamento» forse tutti avrebbero capito cosa bisogna fare per attrezzare il Paese a rispondere agli choc climatici, tecnologici, geopolitici, finanziari e così via. Avrebbero capito, come ha suggerito Francesco Giavazzi sul Corriere, che «sarebbe molto meglio concentrarsi sull’attuazione del piano. Semmai sugli ostacoli e su come superarli».
E veniamo alla diversità, un termine usato per designare politiche aziendali di vario genere. Questi lodevoli intenti rivelano orientamenti che contengono un inconsapevole germe di discriminazione. Diversità da cosa? Da un’idea di normalità che misura la distanza dallo standard e che richiede l’inclusione come solidarietà, come compensazione di questa distanza e non come valore in sé.
Di cosa si tratta se non di una sorta di stigma? Che non si ritroverebbe invece nell’obiettivo di valorizzare le differenze tra i vari soggetti intese come varietà, come ricchezza da mettere a frutto. Non cambierebbe molto, ma se invece di «diversità» si usasse il termine «pluralità», se invece di «inclusione» si usasse «valorizzazione» si contribuirebbe a dissolvere il fumus di non normalità e a far emergere atti concreti di cambiamento.
Le parole sono pietre e vanno maneggiate con cura, pietre non nel senso di oggetti contundenti ma di basi su cui costruire la trasformazione.
Intervento di Giovanni COSTA, Professore Emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova. Ha svolto attività di consulenza direzionale e ricoperto ruoli di governance in gruppi industriali e bancari. (www.giovannicosta.it)
Pubblichiamo questo articolo per gentile concessione dell’Autore. Fonte, Corriere del Veneto dorso regionale del Corriere della Sera del 06-04-2023