Globalizzazione-locale

Ripensare Globale e Locale

30 agosto 2022

di Giovanni COSTA

Capita di leggere sempre più spesso dichiarazioni di opinionisti, leader politici, esperti vari che con toni millenaristi annunciano la fine della globalizzazione. Della quale danno una versione un po’ distorta, se non caricaturale, riducendola a delocalizzazione produttiva e attribuendole ogni possibile malefatta in termini di impoverimento dei Paesi di nuova industrializzazione, di scomparsa del ceto medio produttivo, di deindustrializzazione delle nostre regioni. Ad essa oppongono una versione altrettanto caricaturale della deglobalizzazione sotto specie di reshoring e sue varianti.

Difficile giustificare questa fretta di dichiarare morto qualcosa che non si è ancora espresso compiutamente, e che innegabilmente ha contribuito all’aumento della ricchezza mondiale anche se non equamente distribuita.

Alla globalizzazione come espressione del capitalismo di mercato sempre alla ricerca di efficienza si oppone un ritorno al capitalismo delle relazioni. Relazioni ristrette ad ambiti territoriali ben circoscritti al riparo da confronti, contraddizioni, complessità politiche e gestionali.

Analisi più meditate parlano di una «nuova globalizzazione […] con riferimento non solo ai nuovi settori ad elevata base tecnologica, ma anche ai settori manifatturieri tradizionali e ai servizi» (Gregorio De Felice, chief economist di Intesa Sanpaolo).

Il numero di aziende del Nord, e in particolare del Nordest, che in controtendenza con le ipotesi di deglobalizzazione stanno incrementando investimenti diretti esteri è in continua espansione.

I territori sono la versione di un capitalismo dal volto più umano che sostituisce l’«animal spirit» con il «genius loci» le cui virtù non saranno mai abbastanza celebrate ma non sempre sono sufficienti per stare nella competizione globale senza il supporto di solidi disegni imprenditoriali.

Oggi vincono i prodotti/servizi globali e le nazioni che sono in grado di alimentarne la creazione e il successo. C’è ancora molto spazio per prodotti/servizi locali, caratterizzati in senso regionale. Si tratta di nicchie preziose che vanno coltivate, alimentate e arricchite. Ma che hanno un limite quasi fisico alla crescita. Prendiamo un settore molto tradizionale come l’agroalimentare nel quale si esprimono molte eccellenze del made in Italy e dove i cambiamenti climatici rischiano di determinare le scelte localizzative più della geopolitica. C’è chi si sta attrezzando con l’aiuto delle nuove tecnologie per globalizzare il know how contenuto in queste nicchie, per superare i vincoli territoriali spostando l’accento dal «made in Italy» al «made by Italians», copyright Roberto Brazzale.

Lo stesso Brazzale ritiene che l’allevamento bovino e la lavorazione del latte trovino nella Repubblica Ceca condizioni migliori che nella Pianura Padana e vi trasferisce con successo il know how di un’esperienza famigliare pluricenteneria nella produzione casearia e nel suo retail. Intanto i francesi di Lactalis (che al reshoring non ci pensano proprio) continuano a collezionare brand italiani come hanno fatto in questi giorni con il Gruppo Ambrosi (420 milioni di fatturato di Grana Padano e Parmigiano Reggiano). Rigoni realizza che in Bulgaria ci sono condizioni per la produzione di miele biologico sfruttando una flora e una densità di api più adeguate che in Italia dove però continua a crescere. Produttori di vino veronesi (Masi agricola) portano in Argentina le tecniche di selezione e trattamento delle uve usate per l’Amarone e trovano occasioni di espansione internazionale che sarebbero loro precluse in Italia. Le aziende citate, italianissime, molto radicate nelle terre di origine sanno reinterpretarsi in chiave globale uscendo da spazi circoscritti che ne limiterebbero la crescita. E gli esempi potrebbero continuare in altri settori.

L’annuncio della morte della globalizzazione è senz’altro esagerato ma la nuova globalizzazione è un processo da monitorare con cura.

 

Pubblichiamo questo articolo per gentile concessione dell’Autore. Fonte, CORRIERE DEL VENETO/CORRIERE DELLA SERA  del 30-LUG-2022

Intervento di Giovanni COSTA, Professore Emerito di Strategia d’impresa e Organizzazione aziendale all’Università di Padova. Ha svolto attività di consulenza direzionale e ricoperto ruoli di governance in gruppi industriali e bancari. (www.giovannicosta.it)

 



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