La nostra sanità ha goduto, prima della emergenza della pandemia dovuta al COVID 19, di una buona stampa. La pandemia ha fatto peraltro emergere alcune pecche della nostra sanità: in particolare è emersa la fragilità della sanità extraospedaliera, cioè della sanità territoriale, come pure è emersa la confusione organizzativa in cui si trovano molti ospedali italiani.
Un indicatore indiscutibile e eclatante del disagio strutturale della nostra sanità è rappresentato dal fatto che le nostre asl non sono assicurate.
La scelta di non essere assicurate è maturata, diversi decenni or sono, quando le varie Regioni Italiane si sono rese conto che i premi richiesti dalle compagnie assicuratrici (interpellate con il meccanismo dell’appalto europeo) erano altissimi, notevolmente più alti di quelli richiesti dalle stesse assicurazioni alle strutture sanitarie di altri Stati Membri della UE.
Cerchiamo di capire da cosa deriva questa situazione. Chi guarda al nostro sistema sanitario nazionale dall’esterno è colpito innanzi tutto da una cosa: i così detti “presidi ospedalieri (cioè gli ospedali) e i così detti “distretti” (praticamente i poliambulatori) non hanno né personalità giuridica né autonomia contabile. Tutto si sfuma nelle nebbie delle Aziende Usl. Questa incredibile caratteristica ha una serie di conseguenze subdole che infettano tutti i comportamenti degli operatori sanitari, di fatto rendendo impossibile accoppiare costi con risultati e assegnare le responsabilità (sia per premiare che per sanzionare) a chi decide e opera. Questa confusione di base ha impedito sin qui, cosa da non sottovalutare, lo sviluppo di competenze in materia di management sanitario.
I vari corsi master che vengono proposti erogano competenze ipotetiche, visto che nella confusione istituzionale in cui opera il nostro Sistema Sanitario Nazionale non è assolutamente possibile svolgere una funzione manageriale, funzione che richiede la possibilità di disporre di dati affidabili e la possibilità di incidere con decisioni cui fanno seguito azioni concrete.
La mancata individuazione degli ospedali e dei distretti come entità giuridico-contabili sviluppa una sinergia ulteriormente negativa là dove esistano delle realtà universitarie. In questi casi le realtà universitarie assumono la forma delle Aziende Ospedaliere Universitarie (AOU) che sfuggono a qualunque coordinamento con la Azienda Usl nel cui territorio si trovano ad operare. Ne consegue che, tra la regione e le varie Aziende Usl, si sono giocoforza sviluppate delle strutture che mirano ad ottenere il coordinamento della AOU con la Azienda Usl di riferimento, strutture che, peraltro, non sembrano essere in grado di coordinare un bel niente.
All’interno dei singoli presidi ospedalieri e dei singoli distretti/poliambulatori i processi sono del tutto assenti.
Nella Regione Toscana si fanno corsi, nell’ambito delle sue tre ASL, sulla gestione per processi, sul quality management e sul sistema ISO. Eppure ogni volta che sono andato a chiedere di mostrarmi un processo, le unica cose che mi sono state mostrate sono delle slides sui principi della teoria dell’organizzazione per processi. Nessuno è mai stato in grado di mostrarmi un documento che dettagliasse il flusso di un qualunque processo. Per non parlare del fatto che tutte, senza alcuna eccezione, le ASL sono inadempienti in relazione all’obbligo stabilito dal Dlgs 286 del 1999, all’art 1 comma 4 lettera d, che impone ad ogni amministrazione di individuare i suoi “prodotti”. Solo partendo dall’individuazione dei prodotti si può, del resto, procedere alla messa a punto dei processi necessari per realizzare i vari prodotti.
Questa situazione paradossale ha una origine ben precisa che va capita. Il nostro SSN è stato creato con la legge 833 del 1978 anno terribile per gli equilibri politici del nostro paese. Si tratta, non solo dell’anno del sequestro e dell’omicidio di Aldo MORO, ma anche dell’anno dell’entrata del Partito Comunista nell’area di governo. La legge 833 del 1978 appare essere proprio uno dei prezzi (il più alto) pagato per ottenere il sostegno (seppur indiretto con il meccanismo della “non sfiducia”) del PCI. La l. 833/1978 in effetti configura un SSN che è presso che esclusivamente pubblico e che lascia poco spazio agli operatori privati. Qui va rapidamente rammentato che nel 1978 era in vigore ancora il testo della Costituzione approvato nel 1948. Tale testo prevedeva che le regioni potessero produrre leggi non solo in materie ben definite (tra cui la sanità) ma sopra tutto nell’ambito di “leggi quadro” nazionali. Orbene la legge 833 del 1978 è una legge quadro. Questo significa in pratica che le leggi sanitarie delle 20 regioni italiane differiscono tra loro solo in alcuni dettagli. Di fatto tra la sanità Toscana e quella lombarda ci sono solo differenze di dettaglio. Il risultato è stato, per tutti gli anni ‘80, un sistema sanitario pubblico piuttosto cialtrone (a disposizione gratuitamente dei cittadini) affiancato da operatori privati che curavano più gli aspetti commerciali della salute che quelli professionali.
Agli inizi degli anni ‘90 il Ministro De Lorenzo tentò di porre rimedio a questa dicotomia introducendo il meccanismo dell’ “accreditamento” (dlgs 502 del 1992) cui si sarebbero dovuti sottoporre sia le strutture private che le strutture pubbliche(1). Tale meccanismo (su cui si basano tutti i sistemi sanitari del Nord Europa) non è mai stato applicato e, anzi, progressivamente è stato svuotato del suo significato originale ed è stato usato per affermare la supremazia incontrastata del settore pubblico (l’ospedale pubblico si accredita con una autocertificazione) rispetto a quello privato (che deve essere accreditato da una struttura pubblica). Anziché mettere il pubblico ed il privato sullo stesso piano è passato il principio secondo cui il privato serve solo per coadiuvare il pubblico là dove il pubblico non è in grado di far fronte ai picchi di domanda! Si sono sviluppati meccanismi burocratici di una complessità incredibile. Le varie strutture private operanti in Italia non sarebbero in grado di sopravvivere con i casi loro “esternalizzati” da una singola ASL, per cui devono fare convenzioni con una miriade di ASL dando vita ad una vera e propria giungla.
A livello di sanità territoriale la contrapposizione strutture private sensibili agli aspetti commerciali ma poco qualificate/strutture pubbliche tecnicamente qualificate ma cialtrone ha trovato un equilibrio più sfumato. Se l’utente ricerca una prestazione ambulatoriale e/o diagnostica qualificata in tempi brevi deve pagare. La prestazione gratuita viene erogata in tempi biblici e il paziente non può scegliere il professionista ma deve “accontentarsi” di farsi visitare da chi è di turno. A questo equilibrio di base si è aggiunta la possibilità di scegliere il professionista che opera nella struttura pubblica purché si vada in modalità “intra moenia”, cioè in modalità prestazione di tipo privato nell’ambito della struttura pubblica.
Questo sistema ha una caratteristica sotto gli occhi di tutti ma che, per pudore, nessuno sembra di voler vedere. La confusione organizzativa che rende impossibile:
(i) la gestione del rischio,
(ii) la individuazione delle responsabilità e
(iii) la presenza di dati affidabili.
Il 7 luglio di questo anno è entrato in vigore il decreto ministeriale n. 71 del Ministro della sanità con cui, di fatto, si riversano sulle ASL italiane una quantità notevole di miliardi di euro per la realizzazione di strutture fisiche per porre un rimedio alla debolezza principale della nostra sanità emerse in occasione della pandemia: cioè per la realizzazione di poliambulatori pomposamente denominati “case della salute”.
Per realizzare una qualunque opera di ristrutturazione (organizzativa, istituzionale, contabile etc.) bisognerebbe procedere con metodo, il che implica passare attraverso le seguenti tappe:
a. prendere le mosse dalla situazione esistente,
b. individuarne i punti di debolezza e di forza, sopra tutto, bisogna avere le idee chiare sulle cause di dei punti di debolezza,
c. progettare il modello verso cui si vuole tendere,
d. progettare le tappe per passare dalla situazione attuale. Proprio su questi punti di debolezza e sulle loro cause non c’è segno di attenzione nel dibattito sulla necessità di riformare la nostra sanità. Vediamo se riusciamo a fare un po’ di chiarezze in queste poche righe.
Il Decreto Ministeriale 71 non è il frutto di una pianificazione metodologicamente corretta. Ci si limita a prevedere delle spese per realizzare strutture (le così dette case della salute) di cui non è affatto chiaro quali funzioni debbano svolgere. Una ultima considerazione.
Negli ultimi 30 anni, seguiti alla mitica caduta del Muro di Berlino, alla UE e al Consiglio d’Europa si sono maturate innumerevoli esperienze su come gestire il processo di riforma istituzionale. Perché non facciamo uso di queste esperienze, magari per evitare errori già fatti altri Paesi? Ci rendiamo conto, tanto per fare un richiamo provocatorio, che le “case della salute” (che in Belgio da dove sto scrivendo esistono da quasi un secolo) servono per risparmiare e non richiedono spese aggiuntive?
Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti:
(1) Cfr. M. Balducci (2021), “Sanità e accreditamento: la difficile transizione da autorizzazione amministrativa a tecnico-professionale”, Risk & Compliance Platform Europe; www.riskcompliance.it
Gennaro Troiso Replica
Davvero illuminante. Brevi righe, come definite dallo stesso autore dell’articolo, ma ben capaci di fornire, attraverso la fotografia attuale della situazione e di come si sia venuta formando negli ultimi decenni, un quadro altamente complesso di inefficienze e paradigmi politici invasivi in ciò che dovrebbe essere, invece, servizio e non business, di qualunque tipo questo possa essere.