di Marco AVANZI
Il 23 febbraio di quest’anno si è giunti, dopo un articolato percorso in Commissione UE, alla presentazione di una prima bozza di Direttiva UE in materia di obblighi di due diligence nella catena di fornitura(1).
Con la proposta normativa in questione, l’UE intende introdurre un nuovo strumento volto a rendere cogenti una serie di buone prassi fino ad oggi ancora lasciate alla libera adozione da parte delle imprese nonché basate fondamentalmente su strumenti di soft law.
Lo scenario normativo che ora si appresta ad essere discusso prevede una serie di attività da considerarsi da parte delle imprese di grandi dimensioni finalizzate all’identificazione, mappatura e gestione dei rischi che possono pregiudicare valori ambientali e sociali insorgenti all’interno della supply chain.
Senza scendere nel merito delle azioni richieste, per le quali si rinvia ai precedenti articoli, è interessante notare come l’iniziativa della Commissione UE non sia una assoluta novità anzi, risultano ad oggi già presenti alcuni strumenti normativi in determinati paesi (UE e non UE) e di soft law promossi da organizzazioni internazionali, che focalizzano la rilevanza del tema di procedere ad una due diligence all’interno delle supply chain introducendo:
- veri e propri obblighi di analisi da una parte e
- utili strumenti metodologici dall’altra.
A seconda dei paesi che hanno anticipato questo scenario si possono trovare approcci diversi in relazione all’estensione degli obblighi, alle tematiche coinvolte nonché agli strumenti volti a rendere cogenti questi obblighi di due diligence.
Per una questione di economia della narrazione non è possibile scendere nel dettaglio di ogni singolo strumento normativo ma, allo stesso modo, può essere utile conoscere quali paesi abbiano anticipato, in tutto o in parte, gli sforzi della Commissione e quali obblighi le imprese italiane potrebbero incontrare nel momento in cui si relazionano con tali paesi.
Uno dei paesi che per primo ha approcciato il tema della due diligence all’interno delle catene di fornitura è il Regno Unito con il proprio UK Slavery Act. Dal 2015 specifiche organizzazioni identificate per criteri dimensionali sono soggette a specifici obblighi di disclosure nonché di pubblicazione degli step che hanno adottato per prevenire rischi legati allo sfruttamento delle persone delle filiere produttive. Le attività di due diligence diventano fondamentali in ottica britannica proprio al fine di identificare le possibili esposizioni a questi rischi e implementare processi di monitoraggio e controllo.
Ha fatto seguito all’esempio britannico anche l’Australia con il suo Modern Slavery Act del 2018 che ripercorre le tematiche già affrontate nella normativa britannica con una certa rilevanza degli obblighi di reporting e trasparenza per le imprese.
All’interno dell’UE alcuni esempi di normative in materia di catene di fornitura e obblighi di due diligence a protezione di determinati valori si possono trovare nelle legislazioni nazionali.
In Francia con la legge sulla “Corporate Due Diligence” (LdV) del 2017 viene introdotto l’obbligo per alcune categorie di imprese di implementare e monitorare uno specifico piano di vigilanza che comprenda le aziende sussidiarie e i fornitori su determinati tematiche tra le quali diritti umani e ambiente. Le attività richieste comprendono fasi di assessment del rischio, di monitoraggio e controllo delle misure implementate introducendo altresì forme di responsabilizzazione delle imprese in caso di eventi ad impatto negativo.
L’Olanda con il proprio “Child Labour Due Diligence Act” del 2019 ha introdotto invece obblighi di accertamento da parte delle imprese al fine di assicurarsi che i prodotti provenienti dalle proprie catene di fornitura non siano correlati a fenomeni di sfruttamento del lavoro minorile. Ancora una volta c’è una rilevanza delle attività di risk assessment e per la identificazione di situazioni di potenziale esposizione a rischi di questo tipo.
Un recente provvedimento molto allineato al contenuto della proposta di Direttiva della Commissione è sicuramente la legge promulgata in Germania “Gesetz uber die unternehmerischen Sorgfaltsplifchten in Lieferketten” pubblicata nel luglio 2021.
Con questo provvedimento vengono introdotti veri e propri obblighi di due diligence risk based nei confronti delle aziende della supply chain. Questo obbligo sarà vigente a decorrere dal 01.01.2023 per le imprese tedesche con più di 3000 dipendenti e dall’anno successivo vedrà applicazione per tutte le aziende con almeno 1000 dipendenti. Il focus dell’iniziativa è diretto verso il rispetto degli human rights e della tutela dell’ambiente richiamando nel perimetro di attuazione della norma una serie di atti internazionali promulgati in materia. Questa iniziativa legislativa prevede specifiche attività per le imprese tra le quali:
i) l’introduzione di un framework di risk management;
ii) la definizione di specifiche politiche sulle tematiche in questione;
iii) l’introduzione di specifici rimedi e misure in caso di esposizioni al rischio;
iv) l’introduzione di processi di due diligence;
v) l’introduzione di processi di reclamo e reporting.
All’interno di questo scenario viene ricompresa tutta la catena del valore dell’azienda coinvolgendo partner, fornitori e appaltatori di servizi.
Alcuni esempi di normative di questo tipo si possono trovare anche oltre oceano. Negli Stati Uniti è presente una normativa recante un obbligo di due diligence nello Stato della California che nel 2012 ha promulgato il “The California Transparency in Supply Chain Act” e provvedimenti similari sono ad oggi in discussione anche a livello federale senza dimenticare la già vigente Section 1502 del Dodd-Frank Act del 2010. L’iniziativa del 2012 prevede alcuni step da seguire come la valutazione e considerazione dei rischi di human trafficking and slavery nelle analisi di supply chain, requisiti di certificazione da parte dei fornitori e audit da eseguire sui fornitori sulle materie precedentemente indicate.
A questi scenari nazionali vanno sicuramente collegate anche le iniziative internazionali in relazione a questa tematica.
L’input principale è giunto probabilmente dal UN Human Rights Council che a partire dal 2011 ha svolto una attività di importante spinta sul tema della Human Rights Due Diligence.
I Principi Guida si fondano su tre “Pilastri”:
- L’obbligo dello Stato di proteggere gli individui dalle violazioni dei diritti umani compiute dalle imprese (Primo Pilastro);
- La responsabilità delle imprese di rispettare i diritti umani (Secondo Pilastro);
- La responsabilità degli Stati e delle stesse imprese di prevedere dei rimedi effettivi (Terzo Pilastro)
Il Principio n. 15, si concentra sull’analisi delle metodologie che possono essere utilizzate dalle imprese per far fronte alla “responsabilità” di rispettare i diritti umani, come l’attuazione di un processo di Human Rights Due Diligence (HRDD). Fondamentale è il principio nr. 17 “Due diligence sui diritti umani” per il quale il processo di valutazione dovrebbe considerare:
- la valutazione degli impatti effettivi e potenziali sui diritti umani, integrando e agendo in base ai risultati dell’analisi, monitorando e comunicando le misure adottate;
- considerare gli impatti negativi sui diritti umani che l’azienda potrebbe causare o a cui potrebbe contribuire attraverso le proprie attività o attraverso attività collegate o propri rapporti commerciali.
Proseguendo le attività da porre in essere per le aziende dovrebbero prevedere:
- l’identificazione di specifici ruoli interni che abbiano esperienza in materia;
- il coinvolgimento degli stakeholders;
- una corretta governance della gestione del rischio;
- reazioni specifiche in caso di impatti negativi;
- l’adozione di specifiche metodologie qualitative e quantitative per misurare gli impatti negativi;
- la comunicazione in modo trasparente le azioni adottate.
Come già si è avuto modo di trattare in altre occasioni sono sicuramente meritevoli di trattazione le linee guida in materia di Responsible Business Conduct promosse dall’OECD. Queste linee guida hanno permesso di promuovere questi temi di verifica della supply chain in relazione ai temi dei diritti umani, ambiente, corruzione etc, specialmente in relazione a specifici settori a rischio (agricoltura, attività estrattive, produzione tessile etc..) nonché in relazione a determinate aree geografiche maggiormente a rischio dove le condizioni socio-politiche possono essere foriere di violazione di diritti e condizioni pregiudizievoli (high-conflict area – non controlled areas)
Volendo riassumere i concetti principali di questo tema e cercando di dare una visione di insieme, vi sono alcuni aspetti che per le imprese italiane vanno sicuramente considerati per potersi preparare agli sviluppi futuri ed essere pronte nei diversi mercati che dovessero considerare per la propria espansione.
1. la valutazione dei rischi che possono pregiudicare valori ambientali, sociali, etici e di governance, non sono più riferibili unicamente allo scenario interno dell’impresa ma andrà esteso anche alla propria catena di fornitura. Le imprese non potranno più valutare i propri impatti sull’ambiente esterno, sulle tematiche di legalità e sui diritti umani (lavoratori e comunità) considerando unicamente le attività interne eseguite senza estendere l’analisi a tutta la propria catena di fornitura.
2. Nel tracciare la propria value chain (necessaria per comprendere quali risorse vengano utilizzate e quali passaggi vengano eseguiti per la trasformazione) dovranno necessariamente considerare la propria supply chain quale parte integrante di tali valutazioni.
3. La scelta più o meno aderente a questi valori da parte dei propri partner e fornitori inciderà direttamente sull’azienda stessa, da un lato, quale possibile forma di responsabilità dell’azienda e degli amministratori, dall’altra quale perdita di valore o clienti specialmente ove gli stakeholders, sensibili ai valori pregiudicati, non dovessero essere stati correttamente informati dei possibili rischi derivanti dal prodotto, servizio o investimento.
4. Nell’ottica ESG, la necessità di valutare i potenziali impatti negativi sui valori derivanti dal business aziendale, dovrà necessariamente considerare anche le caratteristiche della supply chain. Selezionare correttamente i propri fornitori permetterà di prevenire e mitigare meglio questi rischi.
5. Per poter comprendere, in ottica di doppia materialità, quali conseguenze potrebbero esservi sul business aziendale dal pregiudizio di valori ESG (come ambiente e diritti dell’uomo), si dovrà considerare appieno anche la propria catena di fornitura non solo, come soggetto che potrebbe impattare ambiente e diritti umani ma, altresì, come entità che potrebbe essere a sua volta pregiudicata dal depauperamento di risorse ambientali, violazioni in materia di diritti e comportamenti non conformi e rispettosi della legalità.
6. L’analisi di impatto negativo su ambiente e diritti dell’uomo in relazione alla catena di fornitura non dovrà essere considerato come un mero obbligo di compliance ma, all’opposto, come un mezzo per creare valore per l’azienda stessa attraverso una selezione migliore dei fornitori stessi.
7. Una comprensione dei propri impatti sugli asset ESG, anche attraverso un’analisi della supply chain, porterà ad individuare possibili gap che potrebbero essere fonte di responsabilità per l’azienda stessa (con inevitabile perdita di valore) se non essere addirittura pregiudizievoli per la continuità del business stesso (ponendo a rischio la stessa sopravvivenza dell’impresa).
8. L’evoluzione delle normative in materia d’impresa è sempre più orientata ad un approccio risk based volto a spostare sulle aziende l’onere di implementare presidi e misure per prevenire violazioni di norme o specifici scenari. Dall’altro canto lo sviluppo dei temi ESG e la previsione di framework e azioni precise per tutelare tali asset, sono sempre più coincidenti con le medesime tematiche oggetto di normative di compliance. Pertanto, un approccio virtuoso verso questi temi, anche considerando questa evoluzione, aumenta le capacità dell’organizzazione stessa di agire in modo conforme nonché di approcciare una visione integrata del rischio con evidenti sinergie interne in tema di risorse, costi e investimenti.
9. Analizzando gli scenari internazionali in parallelo a quelli che sono gli orientamenti dell’UE è palese come i temi ambientali, sociali e di legalità non siano più temi volontari ma siano sempre più parte fondamentale del processo di creazione di valore dell’impresa. Il valore creato dall’impresa viene sempre più misurato non solo in termini di utili operativi o di aumento di valore per gli azionisti ma, all’opposto, anche come miglioramento dello scenario esterno o, in caso negativo, quale pregiudizio arrecato.
Concludendo si è visto come ci siano nazioni ove il tema è già diventato una priorità e come a livello internazionale stiano prendendo sempre più forza gli strumenti di due diligence per valutare questi temi in relazione alle attività di imprese e organizzazioni.
La direzione è ormai tracciata. Le imprese, anche italiane, dovranno far fronte a questa istanza e a questa richiesta che proviene dall’Unione Europea, dalle organizzazioni internazionali e dalla stessa società civile, implementando sistemi e metodologie che permettano, in ottica di accountability, di poter dimostrare la propria diligenza nell’intera catena del valore e supply chain e di saper valutare i rischi di impatti negativi sui temi ambientali e diritti umani, questioni di massima rilevanza ai giorni nostri.
Per approfondimenti, consultare i seguenti link e/o riferimenti: